Bellezza e delirio del morire da amanti, tra la tela e il romanzo

Le vicende individuali e il mito collettivo, in un intreccio di intimità e condivisione, volontà tenace e resa incondizionata ai superiori destini della Storia - I quadri di Pagliarini, Buzio, Roi, Pollastrini, Pogliaghi, fino al bellissimo “Paolo e Francesca” di Gaetano Previati.
Gaetano Previati Paolo e Francesca, 1909, Olio su tela, cm 230 x 260, Ferrara, Museo dell’Ottocento
Gaetano Previati
Paolo e Francesca, 1909, Olio su tela, cm 230 x 260, Ferrara, Museo dell’Ottocento

melo41[L]a morte degli amanti. Tema fascinoso, quanto mai “pertinente” – nel racconto dell’emozione indicibile dell’incontro fra i due estremi sentimenti (amore e morte, appunto) – ad un’epoca, l’Ottocento, e alla sua pittura, o almeno ad un certo filone di essa. Dall’“Imelda e Bonifacio” di Giovanni Pagliarini ed all’omologo “Imelda de’ Lambertazzi presso il cadavere dell’amante” di Pacifico Buzio alla “Morte di Giulietta e Romeo” di Pietro Roi, dal “Nello alla tomba della Pia” di Enrico Pollastrini alla “Morte di Giovanni Maria Visconti” di Ludovico Pogliaghi, fino al bellissimo “Paolo e Francesca” di Gaetano Previati. Neppure il filo conduttore che attraversa le opere, accomunandole al di là delle differenti sensibilità degli autori, sfugge a tali caratteristiche di “ambiguità”: dipanandosi, sciogliendo l’intreccio in una biforcazione di capi che mette fianco a fianco, in un itinerario parallelo, la robusta, solenne, ridondante teatralità del gesto e la sollecitazione convinta al subitaneo sussulto del cuore.

Sangue, veleno e una “bocca trepidante”
Giovanni Pagliarini, “Imelda e Bonifacio”, 1835
Pacifico Buzio, “Imelda de’ Lambertazzi presso il cadavere dell’amante”, 1864

Imelda e Bonifacio, ovvero Giulietta e Romeo in salsa bolognese. I due amanti, vittime dell’odio tra famiglie rivali in anni tra i più bui del Medioevo della città felsinea, hanno colpito la fantasia di molti pittori – ma anche scrittori e compositori, tra cui Donizetti – dell’Ottocento. E non avrebbe potuto essere altrimenti, se si considera la straordinaria carica melodrammatica – tra erotismo e gusto del macabro – della “scena madre” della vicenda: quando Imelda, a tu per tu con l’amato colpito al cuore dalla lama avvelenata dei fratelli di lei, tenta invano di salvarlo succhiando dalla ferita “il sangue corrotto”, autocondannandosi così a morte per “attossicamento”. Come narrava Defendente Sacchi ne “I Lambertazzi e i Geremei”, pubblicato nel 1830, “la forte donna, deliberata salvare l’amante col sacrificio della propria vita, accosta la bocca alla piaga mortale e ne sugge il rappreso umor sanguigno, e trepidante la lambe con ansiosa sollecitudine”. Cinque anni dopo l’uscita del libro, il pittore ferrarese Giovanni Pagliarini (1808-1873) realizza questo dipinto (che fa seguito, tra gli altri, a quello eseguito in precedenza in ben tre versioni dal grande Hayez). Si tratta di una tela tutta imbevuta di spirito melodrammatico, attento alla proposta di una rappresentazione di intensa emotività. Una funzione teatrale ben presente pure nel quadro di analogo soggetto che il pavese Pacifico Buzio (1843-1902) completò nel 1864 (quindi a soli ventun anni di età!), anche se qui tale carica pare assumere le caratteristiche di un silenzioso dramma interiore, immobilizzato entro un’angosciante sensazione di vuoto e di solitudine.

Pia de’ Tolomei, il quadro è un palcoscenico
Enrico Pollastrini, “Nello alla tomba della Pia”, 1851

Troppo tardi. Quando si rende conto del proprio tragico errore, Nello non fa più a tempo a salvare l’innocente moglie Pia dalla morte a cui egli stesso l’ha condannata. Ed ora, davanti alle spoglie della consorte distesa entro la fossa, disperato, sconvolto, vorrebbe gettarvisi sopra. Come osserva in catalogo Silvestra Bietoletti, “la fisionomia di Nello, ottenebrata dal dolore e dal rimorso, è messa in risalto dal gesto speculare delle sue mani, dalle dita divaricate nell’atto terribile di profanare – seppure per amore – il corpo pietosamente composto della Pia”. Anche in quest’opera del toscano Enrico Pollastrini (1817-1876) è evidente la concezione drammaturgica, giocata su una sapiente costruzione di figurazioni cristallizzate, collocate all’interno di una pertinente e “funzionale” scenografia.

Fiori e pugnalate per il Duca-tiranno
Ludovico Pogliaghi, “La morte di Giovanni Maria Visconti”, 1889

Il pittore milanese Ludovico Pogliaghi (1857-1950) fu pure, nella sua lunga carriera, scenografo, costumista, decoratore, disegnatore di stoffe e componente della Commissione di “supervisione” di scene e costumi della Scala. Tutte esperienze che permeano di “teatralità” questo dipinto, tra l’altro ispirato proprio ad un testo scritto per il palcoscenico, ossia ad una comi-tragedia composta a quattro mani da Carlo Porta e Tommaso Grossi nel 1818. Ecco dunque il duca-tiranno riverso sulle scale del sagrato della chiesa meneghina di san Gottardo, il viso esangue e deformato dalla morte come una maschera grottesca, mentre una dama dall’espressione sconvolta e terrorizzata cosparge il di lui corpo di petali. Colpiscono, in quest’opera, lo strabiliante virtuosismo esecutivo di alcuni dettagli – si veda, in particolare, il costume del duca – e l’atmosfera, misteriosa ed allusiva, ormai lontanissima da intenzioni ideologico-morali.

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