Il ciclo di manifestazioni per le celebrazioni del VI centenario della nascita di Masaccio si chiude con un’iniziativa di grande rilievo: la mostra “Masaccio e le origini del Rinascimento”, in programma fino al 21 dicembre a Casa Masaccio di San Giovanni Valdarno. L’evento aggiunge un capitolo significativo agli studi e alle ricerche che hanno tracciato la storia complessiva dell’affermazione della cultura rinascimentale in Italia, attraverso la linea guida che dalla scultura e attraverso l’architettura ha poi trovato nella pittura di Masaccio la sua migliore espressione. Abbiamo intervistato il curatore, Luciano Bellosi.
La mostra, che chiude le celebrazioni per il VI centenario della nascita di Masaccio, si preannuncia un evento particolarmente importante grazie alle molte novità e nuove attribuzioni proposte… Possiamo cominciare parlando di Filippo Brunelleschi, uno dei “maestri” di Masaccio…
L’idea che fonda questa mostra è quella di presentare un profilo rapido, esemplato da una selezione di opere di elevatissima qualità, del cammino dell’arte rinascimentale che in Italia, ricordiamolo, si afferma in polemica con la cultura artistica dominante all’epoca, di matrice tardogotica. Io ritengo che in questo cammino la figura-guida sia quella di Brunelleschi, che prima di affermarsi come architetto fu scultore e orafo. Dopo la delusione del 1401, quando la sua formella del “Sacrificio di Isacco”, realizzata per la seconda porta del Battistero di Firenze, fu giudicata sì vincitrice, ma ex-aequo con quella del Ghiberti – per cui il nostro rifiutò l’incarico, che fu quindi affidato al rivale -, Brunelleschi sembra ritirarsi in silenzio a meditare sull’impasse in cui è caduto, e si reca a Roma, per dedicarsi allo studio degli antichi. E’ alla scultura che va fatta risalire la primogenitura dell’arte rinascimentale: un passo fondamentale in questa direzione, compiuto proprio dal Brunelleschi, fu la riscoperta della scultura in terracotta, tecnica che era andata perduta nel Medioevo e che egli ritrova nella lettura di un testo fondamentale, il “Naturalia Historia” di Plinio il Vecchio. Anche se il primo documento che parla di una scultura in terracotta a Firenze è del 1410, e riguarda una gigantesca opera di Donatello (un “Giosuè” per il Duomo), tutti gli indizi portano a credere che la paternità di questa riscoperta sia di Brunelleschi. Ricordiamo, del resto, che Donatello era suo intimo amico, e lo accompagnava a Roma per studiare la statuaria antica.
Dunque, il primo passo verso l’affermazione del Rinascimento italiano riguarda la scultura: e fu un passo tecnico, piuttosto che stilistico.
Esattamente. A partire da qui si assiste a una fase di rapida maturazione, con la proposta di nuove figurazioni, come il gruppo di terrecotte che proponiamo in mostra (e che sono a mio avviso ascrivibili a Brunelleschi, dato che rivelano una perfetta vicinanza stilistica con la statua di San Pietro di Orsanmichele, opera che reputo certa del maestro). Si tratta della “Madonna in piedi con il bambino in braccio” della Chiesa di San Martino di Pontorme, della “Madonna col bambino a mezza figura” di San Cristoforo a Siena e di quella del Museo di Palazzo Davanzati.
Anche Donatello si cimenta con la scultura in terracotta. Lei ha spostato l’attribuzione da Ghiberti a un giovane Donatello di un gruppo di splendide statue realizzate con questa tecnica.
Parallelamente a Brunelleschi opera anche Donatello, che già con il citato “Giosuè” per il Duomo mostra una piena padronanza della nuova tecnica. In mostra presentiamo come sue una serie di sculture di qualità superba, che durante il XIX secolo erano considerate opera di Iacopo della Quercia. Fra l’Otto e il Novecento l’attribuzione fu spostata sul Ghiberti dal grande storico dell’arte tedesco Wilhelm von Bode. Sulla base della fama dello studioso questa attribuzione è stata lungamente accettata. Io però mi sono reso conto che queste sculture denotano sì aspetti ghibertiani (del resto Donatello fu allievo del Ghiberti), ma non hanno quegli elementi di fluidità delle forme tipici del suo modo di plasmare le figure; piuttosto, queste terrecotte sono molto mosse, chiaroscurate, con superfici scabre che rimandano decisamente alla direzione del Donatello più maturo. E il confronto con altre opere giovanili certe, come il “San Marco” di Orsanmichele, il “Crocifisso” di Santa Croce o il “David” del Bargello conferma questa valutazione.
Il cuore della mostra è comunque rappresentato dalle opere di Masaccio…
Dopo l’affermazione dell’architettura, avvenuta verso la fine del secondo decennio del Quattrocento, con sommi esempi come l’Ospedale degli Innocenti, la Chiesa di San Lorenzo, per giungere al capolavoro che fu la Cupola di Santa Maria del Fiore, ecco la terza grande fase dell’attestazione del Rinascimento: quella che riguarda la pittura. Masaccio in questo periodo è evidentemente vicino all’élite di artisti “d’avanguardia”, che comprendeva Donatello, Brunelleschi e Nanni di Banco, e di cui, ci tengo a sottolineare, non faceva parte il Ghiberti. Il suo ruolo fu di massimo protagonista. A mio giudizio, egli è stato in assoluto il più grande artista toscano di tutti i tempi. Se questa dichiarazione a qualcuno potrebbe sembrare azzardata, vorrei ricordare che la sua precoce scomparsa (avvenuta a soli ventisette anni) non gli ha consentito di produrre molto: eppure quel poco è stato di un valore tale da influenzare tutta la grande pittura. Masaccio realizza la rivoluzione del linguaggio pittorico appoggiandosi anche a un’altra idea di quell’instancabile “suggeritore” che fu Brunelleschi, ovvero la legge della prospettiva “artificiale”, che attraverso il rispetto di regole precise operava una riduzione grafica della realtà. Nasce così quell’affresco che è considerato la “bandiera della prospettiva”: la “Trinità” di Santa Maria Novella.
Veniamo poi agli “allievi” di Masaccio.
Il “sottobosco”, se possiamo concederci questo termine, dell’arte fiorentina del tempo fu fondamentalmente restio a seguire le novità introdotte da Masaccio. Tuttavia alcuni grandi maestri, come il Beato Angelico, Filippo Lippi e Paolo Uccello, si resero conto della loro fondamentale importanza e finirono per adottarle. La mostra si sofferma ad indagare la fase giovanile dei tre per chiudere il cerchio dell’analisi proposta. Per quanto riguarda l’Angelico, le opere presenti costituiscono una mostra nella mostra. Fra le altre, la novità assoluta è un frammento di una “Tebaide”, scoperta a Budapest dal Boskovits, che è pressoché identica a quella degli Uffizi, attribuita al pittore dal Longhi.
Vuole segnalare qualche altra novità presente a Casa Masaccio?
Le opere selezionate non sono molte, 38 per la precisione, ma tutte di altissima qualità. Citerei un inedito di Michelozzo, scoperto quest’anno – una scultura in marmo, raffigurante una “Madonna con bambino”, rinvenuta nella chiesa di San Prospero a Monzone, sulle Alpi Apuane -, e alcune primizie di Luca della Robbia.