di Alessandra Zanchi
Claudio Strinati, Soprintendente ai beni artistici e storici di Roma, curò- con Rossella Vodret – la mostra “Caravaggio e il genio di Roma”. Ne riproponiamo l’intervista.
Dalla Royal Academy of Arts di Londra è approdata a Palazzo Venezia di Roma la mostra “Caravaggio e il genio di Roma, 1592-1623”. Si è da poco conclusa, sempre nella Capitale, quella dedicata a “Caravaggio e i Giustiniani”, prorogata oltre il termine previsto. Chiediamo a Claudio Strinati la ragione di tanta attenzione concentrata su Michelangelo Merisi, un “mito” della storia dell’arte. Quale il motivo di fondo che rende il “fenomeno Caravaggio” – così come, del resto, quello legato alla pittura impressionista – oggi più popolare di altri?
Il perché sta nel semplice fatto che Caravaggio è avvertito da tutti come figura eccezionale, ma per motivi del tutto differenti rispetto al fenomeno impressionista. Gli Impressionisti sono sostenuti dal mercato e dal valore sbalorditivo dei quadri (un Cézanne è stato venduto di recente per 80 miliardi!). Inoltre, i loro capolavori sono tanti e di vari artisti. Tutto ciò attira l’attenzione del pubblico al pari delle notizie politiche o di costume. Caravaggio, al contrario, non ha mercato, e – rispetto ai contemporanei – i suoi lavori non sono poi molti e soprattutto sono poco visibili. Si pensi che il suo unico affresco fu eseguito per lo studiolo di un cardinale ed è quindi noto solo agli specialisti. E’ il suo essere sommo, eccelso eppure raro che fa allora di Caravaggio una figura particolare. Poi c’è la fama di sciagurato e mascalzone che certo non corrisponde a verità, come ci insegnano i biografi, ma l’immaginario collettivo è ineliminabile. Da qui l’idea comunemente diffusa per cui il buio e i temi violenti dei quadri caravaggeschi derivano per forza dalla sua natura aggressiva. La stessa sorte è toccata a Beethoven, di cui tutti conoscono la IX Sinfonia e il fatto che fosse sordo. Sono stereotipi, si capisce, che rendono “mito” un personaggio: ma naturalmente ciò non accadrebbe se non ci fosse una genialità di fondo e una grandezza universalmente riconosciuta. Questo è il motivo di un successo che va ben oltre la moda.
Sulla scorta del dibattito sorto intorno a Giotto e Pietro Cavallini, Caravaggio si configura in un certo senso come un altro baluardo della “rivincita” romana sul primato fiorentino. Lei ha parlato di un “secondo Rinascimento” che prende forma nel Seicento. Può spiegarci le caratteristiche di questa rinascita e le differenze rispetto al più noto Rinascimento toscano?
Il problema non è tanto la contrapposizione tra Roma e Firenze bensì, più in generale, la lettura della storia dell’arte italiana dal medioevo a quella che si definisce età moderna. Per quasi due secoli, tra Otto e Novecento, ha prevalso una sensibilità culturale di tipo umanistico, con attenzione alle caratteristiche intellettuali dell’uomo. Pertanto l’arte rinascimentale del Quattro e Cinquecento era vista come il sommo esempio di sintonia tra vita, lettere, arte e filosofia, espressa al meglio da Michelangelo, Raffaello, Piero della Francesca. Oggi siamo ormai pienamente coscienti di quanto il progresso scientifico-tecnologico abbia cambiato radicalmente la vita. Sicché non possiamo non sentirci più vicini, in termini di sensibilità, ad un secolo come il Seicento che, con Galileo, vide nascere la scienza. Un secolo in cui, per altro, gli artisti stessi avevano un approccio più “scientifico”. Una delle differenze tra la tecnica, pur elevatissima, di Raffaello e quella di Caravaggio, sta nel fatto che il primo dipinge sempre e comunque una luce naturale, il secondo una luce assolutamente artificiale. Era già cambiata la percezione del mondo! Ecco allora che se Firenze è stata il centro propulsore e la patria del Rinascimento in senso stretto, Roma, che è stata il fulcro dell’arte del Seicento, con Caravaggio, i Carracci, Rubens – per fare solo alcuni nomi – ha assistito ad un vero e proprio “secondo Rinascimento”.
La pittura di Caravaggio è notoriamente intessuta di simboli, a partire dal celebre riferimento alla “vanitas” attraverso la natura morta. “La buona ventura” dalla Pinacoteca Capitolina o il più noto “Ragazzo morso da un ramarro” dalla National Gallery, entrambi in mostra, sono invece di meno facile interpretazione. Quale può essere la chiave di lettura?
Sul finire del Cinquecento si andava diffondendo il gusto fiammingo di una pittura meno “religiosa” e più arricchita di simboli morali ed educativi, destinata alle case degli intellettuali e dei sapienti. Anche in Italia la committenza intellettuale incoraggiava l’assorbimento di questo clima, e Caravaggio si adattò molto bene alla creazione di simbologie di alto livello, spesso oscure e intriganti (il che desta ancora più interesse e curiosità).
Le chiediamo infine un parere sulle due opere più problematiche esposte per la prima volta in Italia in questa occasione: il “Ritratto di donna con collana d’oro” dal Museum of Art di San Diego e la “Sacra famiglia” dal Metropolitan.
Per quanto riguarda la “Sacra famiglia”, personalmente concordo con il parere degli studiosi nell’attribuzione a Caravaggio. Il ritratto invece è un vero problema e, sebbene le fonti riferiscano che da giovane l’artista soleva dipingere molte teste, non mi sembra francamente di sua mano. E’ comunque importante mostrare al pubblico italiano quest’opera, che giungendo da oltre oceano non è facilmente ammirabile e che probabilmente è di uno dei caravaggisti.
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