Mascheroni e e croci proteggevano le case dall’azione del demonio, che pareva così vicino a Cellatica, in provincia di Brescia, luogo in cui il santuario mariano della Stella costituiva un punto di riferimento per i familiari di chi si ritenesse posseduto dal demonio. Ma dove finivano quelle presenze, una volta che si libravano dal corpo degli ossessi? La Stella, costruita nel 1532 in seguito all’apparizione di Maria a un giovane pastore che, fino a quel momento era muto, fu oggetto di un’intensa devozione mariana che si legò, per vocazione taumaturgica dell’immagine della Madre di Cristo, all’esorcismo. Queste pratiche proseguirono fino alla seconda metà del Novecento. Indemoniati e ossessi giungevano nel paese bresciano da tutti i luoghi d’Italia. Don Negrini, responsabile del santuario, interveniva con benedizioni e aspersioni d’acqua santa, in una lotta contro Satana della quale rimangono numerose testimonianze dirette, nella zona, e un libro scritto dallo stesso sacerdote. Ma i segni di allontanamento formale e rituale di insidiose presenze possono essere individuate nelle contrade di Cellatica, specie nelle decorazioni di palazzo Mazzola, già Pulusella, che, a livello del cornicione, presenta una fitta presenza di protomi e mascheroni, alla base di uno dei quali è stata posta una croce.
L’attenzione per l’arte d’origine greco-romana ed etrusca, portò, tra Cinquecento e Seicento a un notevole recupero di antiche immagini atropopaiche- termine che deriva dal verbo greco “allontanare”-che ebbero, pertanto non soltanto fini decorativi, ma la funzione di imagines agentes in grado di preservare la casa e allontanare il malocchio, quanto possibili infiltrazioni demoniache. La diffusione di mascheroni inquietanti nell’arte della seconda metà del Cinquecento e nel secolo successivo non risulta soltanto legata all’espandersi formale dei disegni romani delle cosiddette grottesche, pitture decorative di fantasia, anche inquietanti, che si diffusero anche grazie alla scoperta della Domus di Nerone, ma evidentemente fu sorretta da una svolta nel campo della magia e della superstizione. Moda e necessità si unirono indissolubilmente..
Poichè i riformatori del Concilio di Trento, di fatto, sfrondarono il culto dei santi e ogni aspetto leggendario legato alla religione, per riportare questa sfera a un legame sempre più stretto con la Bibbia e con il Vangelo, veniva ad essere osteggiato o comunque censurato, il ricorso superstizioso a figure intermediarie di santi, beati e spiriti esorcisti che, nel passato, avevano costituito un pullulante neo-olimpo cristiano. A fronte di queste restrizioni – i cui effetti sono ben visibili nell’arte sacra, con un’aderenza assoluta ala verità delle Scritture, come effetto palese di una tendenza riformatrice – e nel clima del recupero del patrimonio iconografico ellenico, romano, ellenista o etrusco fu possibile aggirare l’ostacolo, facendo ricorso ad immagini di difesa magica provenienti dall’antichità. Può parere eccessivo, tutto questo, al lettore di oggi; ma basterebbe tornare alla memoria alla vita novecentesca, nelle aree non ancora investite dalla razionalismo post-positivista, per comprendere quanto la magia e la superstizione fossero diffuse.
I mascheroni ebbero maggior fortuna apotropaica nel declino della centralità economica dell’Italia, a partire dal grave trauma del Sacco di Roma (1527), nella rottura insanabile tra il mondo protestante e quello cattolico, tra le inquietudini del Manierismo e, successivamente, nell’avanzare seicentesco del pensiero razionalista che tendeva a lasciare sempre più l’umanità a se stessa, senza celesti protezioni.
Così, sia per motivi di funzione magica che per adeguamento a temi iconografici tanto in voga nella Roma della seconda metà del Cinquecento,, i mascheroni in marmo – ma più spesso in pietra o stucco dipinto – furono collocati a protezione dei palazzi, in una fitta rete difensiva. Ciò è facilmente riscontrabile negli edifici italiani del XVI e XVII secolo, come nella facciata seicentesca di palazzo Mazzola, già Pulusella, a Cellatica, in provincia di Brescia. Mascheroni segnano ogni mensola del tetto. E laddove la mensola manca – per la necessità d’aprire un rettangolo di luce e d’aria per la soffitta, il decoratore non lascia spazio all’esercizio del caso e fa plasmare la maschera sopra il finestrino stesso, come se ogni varco dovesse essere coperto dall’azione magica di un protettore oltre che costituire un elemento di continuità decorativa. L’azione svolta da questi volti oltre a costituire un presidio magico – rafforzato, alla base di uno dei mostri dall’apposizione di una croce – aveva la funzione di rendere inquietante il palazzo alla vista dei passanti, rendendo evidente la potenza dei proprietari.
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L’uso di protomi o mascheroni appare sin da tempi antichissimi sia nell’architettura dell’estremo Oriente, che in quella egizia, con una funzione che – se consideriamo la presenza di analoghi elementi nell’America precolombiana – deriva da un’esigenza comune dell’umanità di collocare immagini sacre o di antenati o di demoni protettori all’esterno di edifici sacri o di abitazioni. Pertanto l’uso ornamentale può essere considerato, all’origine, secondario alla necessità di sacralizzazione del luogo in cui essi vengono collocati.
Si ritiene che in Italia l’uso di volti nell’architettura sia giunto attraverso la Grecia, a partire dall’arcaica maschera preellenica usata nei riti di esorcismo, che rappresentava un mostro al quale era stata mozzata la testa, forse un segno di esibizione di potenza, simile a quella sottesa all’ostentazione di trofei di guerra o di caccia. Mascheroni di Gorgoni, cioè donne mostruose dell’Aldilà con serpi al posto dei capelli, mani di bronzo e sguardo che impietriva chiunque le osservasse, furono collocate dai Greci sulla sommità dei timpani di edifici sacri – acroterî – nelle antefisse – parti finali delle tegole – dei tetti, sulle mura delle città (mura ciclopiche presso Argo).Le figure delle Gorgoni, che avevano una funzione magica difensiva giacchè si riteneva avessero, appunto, il potere di pietrificare chiunque incontrasse il loro sguardo, venivano alternate, nell’uso, a maschere tragiche, che forse sostituivano il volto dei morti, teste che nel passato più remoto erano trofei di guerra, con il fine di inquietare il nemico che vi si avvicinasse. Protomi di leoni, musi felini o d’altri animali eletti quali antenati mitici costituivano una diffusa variante iconografica apotropaica. Mascheroni mostruosi convogliavano le acque delle fontane, depurandole così, ritualmente, dalla contaminazione dei mondi inferi, dai quali provenivano.
Lo stretto collegamento culturale e/o etnico con il mondo ellenico e del vicino Oriente, portò gli etruschi ad essere, nella penisola italica, tra i più antichi,se non i più antichi, produttori di mascheroni in campo architettonico, con soluzioni formali di grande pregio, tese a forzare, rispetto ai Greci, mostruosità e colorazione delle figure, come appare nelle teste di Gorgoni del tempio di Portonaccio, a Veio. La porta di Volterra, che presenta la raffigurazione di numerose teste umane, nella chiave e nelle spalle, porterebbe far pensare al fatto, come si diceva, che si fosse giunti a una sostituzione dei cruenti trofei capitali con materiali fittili o lapidei. Nè appare escluso il fatto che si volesse sottolineare che la città o la casa fosse protetta dai morti, dagli antenati, reali o mitici che fossero. L’uso di protomi passò – per convergenza delle culture greche ed etrusche – agli antichi romani che usarono frequentemente mascheroni con fattezze umane o animali, nonché maschere tragiche, nelle architetture, sui sarcofagi, negli arredi domestici. Teste di uomini e di animali che,in una simbologia strettamente collegata al cristianesimo, apparvero con funzioni difensive analoghe nelle chiese romaniche e gotiche. E’ comunque a partire dal XV secolo che i protomi di diffondono, per giungere poi ai culmini espressivi della seconda metà del Cinquecento e dell’intero Seicento. Saranno poi ripresi – con funzioni invece più semplicemente formali e prive di accentuazioni – in età neoclassica.