Press "Enter" to skip to content

Cosa conteneva la nave romana del IV secolo affondata vicino alla spiaggia. Analisi e studi mettono in luce i sapori antichi


Uno studio uscito in questi giorni su “Archaeological and Anthropological Sciences” compie sintesi di un lungo lavoro di ricerca scientifica condotto sul relitto di una nave commerciale romana. Nel 2019, al largo delle coste di Maiorca, emerse questo tesoro archeologico che ha suscitato grande interesse nella comunità scientifica. Ecco, in sintesi, i risultati dell’analisi multidisciplinare che ha gettato nuova luce sui commerci marittimi dell’antica Roma e ha rivelato dettagli sorprendenti sul carico della nave.

I ricercatori hanno adottato un approccio su più fronti all’analisi del relitto, impiegando tecniche sofisticate per esaminare ogni aspetto della nave e del suo carico. Utilizzando l’analisi petrografica, sono stati in grado di determinare l’origine delle anfore, mentre l’analisi dei residui ha svelato il contenuto di questi recipienti. Inoltre, l’analisi del legno e delle piante rinvenute nella stiva della nave ha fornito preziose informazioni sulla costruzione e sull’organizzazione dello spazio di carico. Lo studio è firmato da Miguel Ángel Cau-Ontiveros, Darío Bernal-Casasola, Alessandra Pecci, Leandro Fantuzzi, Llorenç Picornell-Gelabert, Alejandro Valenzuela Oliver, José Alberto Retamosa, José Luis Portillo-Sotelo, Jaume Cardell Perelló, Sebastià Munar Llabrés, Carlos de Juan Fuertes & Enrique García Riaza.

Uno dei risultati più significativi di questa ricerca è stata l’identificazione dell’origine della nave. Grazie all’analisi delle anfore e alla comparazione con reperti simili, i ricercatori hanno ipotizzato che la nave fosse partita da Cartagena, nel sud-est della Spagna. Questa città era un importante centro commerciale nell’antica Roma e la sua posizione strategica ne faceva un punto di partenza ideale per le rotte marittime verso altre parti dell’impero.

Ma ciò che ha suscitato maggiore interesse è stato il contenuto del carico della nave. Le analisi dei residui trovati nelle anfore hanno rivelato che la nave trasportava una preziosa merce: salsa di pesce, olio d’oliva e vino. Questi prodotti erano fondamentali nell’economia romana e il loro trasporto via mare era vitale per il commercio dell’epoca.

Tra le anfore rinvenute, una in particolare ha attirato l’attenzione dei ricercatori. Chiamata “anfora di Ses Fontanelles I”, in onore del luogo del ritrovamento, questo recipiente è stato identificato come un tipo unico che non era stato trovato altrove. Le iscrizioni dipinte su queste anfore, note come “tituli picti”, hanno fornito preziose informazioni sulla provenienza e sul contenuto delle merci. È stato possibile identificare i costruttori delle anfore stesse, Ausonio et Alunni, e leggere la dicitura “Liq Fos”, abbreviazione di “liquamen flos” (fiori di liquamen).

Il liquamen era una salsa di pesce distintiva nell’antica Roma, differente dal più noto garum, ed era utilizzato come condimento nei pasti. Grazie alle analisi condotte sui residui nelle anfore, è emerso che questa salsa di pesce veniva preparata principalmente con piccole engraulidi, in particolare acciughe, con la presenza anche di sarde. Questi ingredienti erano fondamentali per la produzione del liquamen e il loro trasporto via mare testimonia l’importanza del commercio marittimo nell’approvvigionamento delle città romane.

Le analisi condotte sulla nave hanno anche permesso di comprendere meglio l’organizzazione dello spazio di carico. I ricercatori hanno scoperto che i prodotti venivano stivati nella stiva della nave utilizzando tralci di vite e piante erbacee come pagliolo di protezione. Questo metodo di stivaggio, combinato con l’eccezionale conservazione del relitto, ha consentito di preservare numerosi dettagli sulla vita e sulle attività commerciali dell’epoca.

“L’ottimo stato di conservazione dello scafo e del carico, comprese le anfore con iscrizioni dipinte ( tituli picti ), e la sua ubicazione in acque poco profonde al largo di una delle principali spiagge turistiche dell’isola, rendono questo ritrovamento unico nel Mediterraneo. – affermano gli autori dello studio – Una prima stagione di scavi e studio del carico ha innescato un approccio analitico per risolvere alcuni dei problemi posti dalla ricerca archeologica, legati principalmente alla possibile provenienza della nave. La strategia analitica combina analisi petrografiche per lo studio della provenienza delle anfore, archeozoologia e analisi dei residui per identificarne il contenuto, e analisi dei resti legnosi e vegetali per comprendere l’utilizzo delle risorse vegetali nella cantieristica navale e nello stivaggio delle merci. I risultati della combinazione dell’analisi petrografica, dello studio dell’ittiofauna e dell’analisi dei residui organici suggeriscono che l’imbarcazione fosse probabilmente partita dalla zona di Cartagena, nella parte sud-orientale della penisola iberica, trasportando un carico di salsa di pesce (liquaminis flos) , olio e vino (probabilmente anche alcune olive conservate in derivati ​​dell’uva), trasportati in tre principali tipologie di anfore. L’analisi del legno evidenzia, come noto nella cantieristica romana, una chiara selezione delle risorse forestali. I costruttori navali utilizzarono il pino per le parti longitudinali dello scafo, mentre per i pezzi di piccole dimensioni legati al sistema di assemblaggio (picchetti, mortase e tenoni) e sottoposti a forti sollecitazioni selezionarono legni più duri principalmente Cupressaceae, Olea europaea e Laurus nobilis. Inoltre, lo studio rivela che soprattutto rami di Vitis vinifera, ma anche altre piante erbacee venivano utilizzati come pagliolo per proteggere il carico durante il viaggio. I risultati aiutano a far luce su diversi aspetti di questa nave unica affondata nelle acque di Maiorca e contribuiscono a mostrare i vantaggi dell’applicazione delle scienze archeologiche all’archeologia marittima”.

Per quanto riguarda il garum e il liquamen possiamo pensare che a una sorta di pasta di pesce, sale e aromi – in quel caso fermentate e molto aromatica – e di un liquido, nel secondo caso, forse un sottoprodotto del garum stesso. E’ probabile che essi fossero usati in cucina con una funzione simile a quella dei nostri dadi. Molto spesso i termini venivano utilizzati come sinonimi, anche se originariamente v’era una differenza tra i due prodotti.

Nel suo lavoro “Naturalis Historia” (XXXI, 93 e seguenti), Plinio il Vecchio enumera il garum tra le soluzioni saline, descrivendolo come un liquido prelibato ottenuto dalla macerazione delle interiora dei pesci: da qui deriva l’aneddoto che il garum sia “pesce in decomposizione di materie putrefatte”, poiché se non si aggiungeva sufficiente sale si generava invece una putrefazione maleodorante. In caso di giusti ingredienti e di perfetto trattamento, è probabile che la sostanza perdesse l’odore e il sapore originario di pesce. Plinio menziona anche che il miglior garum è il garum sociorum, preparato con gli sgombri e proveniente dalla Spagna, prodotto da una compagnia tunisina di origini fenicie, che principalmente esportava in Italia. Quest’ultimo era prezioso quanto un profumo e un medicinale e come tale, spesso veniva utilizzato. In Italia, nella Campania, a Pompei, Clazomene e Leptis Magna c’erano anche rinomate fabbriche di garum. Si trovava anche una specie di garum non condito, il gari flos, e una varietà fatta di pesce a scaglie, il garum castimoniale. Poiché il garum sociorum consisteva essenzialmente in una salamoia saturata di cloruro di sodio in presenza di enzimi proteolitici, oltre a essere un efficace digestivo, possedeva anche proprietà disinfettanti, equiparabili alla tintura di iodio e a delicati antinfiammatori. Perciò veniva utilizzato come rimedio per la scabbia degli ovini, le ustioni recenti, i morsi dei cani, per curare le ulcere, la dissenteria e le affezioni auricolari.

Fonte: Archaeological and Anthropological Sciences