di Maurizio Bernardelli Curuz
Un’élite travolta dalla grande bellezza della cultura italiana del passato, incapace di reagire e di essere produttiva, in quanto ogni cosa bella è già stata prodotta. L’unica strada possibile è la fatuità – a volte intellettualmente profonda e machiavellicamente esercitata in modo impeccabile – di una danza di fronte alle vestigia degli antenati, che uccidono l’anima, attraverso una malattia melodrammaticamente sublime. Paolo Sorrentino, con un film che produce, in alcuni punti, un elegantissimo calligrafismo e un manierismo che appartengono alla cultura della decadenza, ha realizzato un’opera di grande valore poetico, culturale e politico. Tema centrale è la sterilità e la castrazione prodotta dal Super io di un Paese bloccato dalla paura di sbagliare e dalla sazietà indotta dai messaggi antichi da cui è avvolto. Sterile creativamente – come l’artista de “La noia” di Moravia – è il protagonista del film, uno scrittore che ha prodotto, quarant’anni prima dei fatti – più allusi che narrati – un romanzo di successo e che successivamente realizza interviste – si pone cioè in ascolto di colui che crea un discorso – e vive solo di notte, transitando da una festa all’altra, tra altri intellettuali umanamente falliti, prelati, donne velleitarie e vergini puttane.
Fisicamente sterile è il marito di Elisa, la donna che, in gioventù, il protagonista ha amato, senza essere in grado di bloccare quella felicità, rappresentata dal rapido ritorno di ossessioni delle memoria che si aprono, come soffitti dipinti, nella luce di un mare azzurro, di fronte agli occhi dello scrittore. Sterile intellettualmente è la femminista di sinistra che produce libri banali, quanto sterili spiritualmente sono i prelati, uno dei quali riesce soltanto a illustrare, con precisione liturgica, ricette di cucina. L’immagine–chiave del film – sotto il profilo semantico – è contenuta nella sequenza della performance di una giovane artista che, nuda, nella campagna romana – di fronte al solito milieu di invitati – corre velocemente in direzione dell’antico acquedotto romano e picchia violentemente il corpo contro la base del manufatto.
L’acquedotto romano è il blocco simbolico posto, dal nostro Paese, di fronte a qualsiasi tentativo di produzione, nei termini della modernità. I fantasmi che bloccano l’Italia sono modelli troppo alti, che inducono impotenza – ricordate Antonio di Brancati e le aspettative del padre? – e impossibilità di creare una discendenza.
Non per nulla, durante la visita notturna a un palazzo da parte del protagonista e di una spogliarellista, dalla quale ci si attende, inutilmente, un proletario e vitalistico sblocco vissuto nella carne, Sorrentino pone in luce la Fornarina di Raffaello, che appare a livello di immagine fantasmatica. Citare Raffaello significa alludere al pittore che ha conchiuso un modello inarrivabile di perfezione. E pertanto una nuova forma di sterilità. O meglio: l’indotta produzione di cloni manieristici di bellezza.
Sorrentino immerge lo spettatore in un nobile flusso di atmosfere che riecheggiano Luchino Visconti – nella tenebrosa poetica di interni asfissianti – che a sua volta recupera il D’Annunzio de Il Piacere; unisce Andrea Sperelli a Visconti, a un mitigato espressionismo felliniano e agli spiazzamenti alla Almodovar. E infine fa riverberare, nell’immagine drammatica della santa, nel finale – che rinvia a Madre Teresa di Calcutta – i volti e le luci di Caravaggio, unica via verso la violenza basica della verità, che somiglia tanto alla certezza barocca della morte e della rigenerazione.
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