Alessandro Cecchi, Direttore della Fondazione Casa Buonarroti, ha dedicato un brillante saggio a “Michelangelo e la peste”. Un saggio che fa pensare, ad esempio – per dirla con le parole dello studioso – che “l’uomo ha la memoria corta – come si sa – e non fa tesoro delle lezioni della storia”. Michelangelo Buonarroti dimostrò che un’epidemia va affrontata immediatamente. E che il ritardo nella diagnosi e nell’isolamento dei primi focolai ha un peso altissimo. Le sue parole non possono non ricordarci come – probabilmente con l’idea di non offendere i cinesi – il Governo italiano agì.
Un pittore del XVI secolo era più accorto di uomini politici del XXI secolo? Ben sappiamo quanto gli artisti, in quell’epoca, fossero acuti osservatori della realtà e che spesso – come nel caso di Leonardo – sviluppassero una metodologia di analisi che li portava ad essere, di fatto, scienziati. Ben sappiamo che il realismo analitico degli autori rinascimentali portò un’accelerazione delle cognizioni scientifiche, che si ponevano al di là degli schemi pregiudiziali della Scolastica e delle università. Il contatto e la manipolazione della materia, la necessità di rappresentare fedelmente un volto e un oggetto o un paesaggio, la perfetta conoscenza dell’anatomia creavano i presupposti dell’osservazione scientifica. Buonarroti fu sempre molto attento agli eventi epidemici – in quell’epoca con il sostantivo peste o morbo si indicavano, in genere, malattie contagiose di varia natura che colpivano ogni fascia d’età – e i suoi scritti dimostrano che egli aveva ben chiaro il concetto di previsione e di prevenzione, il concetto di distanziamento tra persone, l’isolamento delle case infette e le precauzioni nel maneggiare qualsiasi cosa, persino le lettere.
Insomma. se i ministri della salute dei governi europei avessero, nel momento in cui dalla Cina giungevano le immagini allucinanti di Wuhan, fatto tesoro della Storia avremmo accolto la pandemia in modo ben più conscio e pronti ad applicare immediatamente i piani di difesa. Scrive Alessandro Cecchi:
“La prima volta in cui s’imbattè nella peste, si trovava fuor di Firenze, a Bologna, per gettare in bronzo la statua di papa Giulio II destinata alla facciata di San Petronio. Di lì, il 26 marzo del 1507, scriveva al fratello Buonarroto in Firenze: «Qua chomincia la moria ed è della cactiva, perché non lascia persona dov’ella entra, benché per ancora non cie n’è molta forse quaranta case, secondo che m’è decto». Il 20 aprile il morbo si era diffuso e l’artista, preoccupato per la sottovalutazione del pericolo, si indirizzava, questa volta, al fratello Giovan Simone: «Tu mmi scrivi d’un cierto medico tuo amico, il quale t’à dicto che lla moria è uno chactivo male e che e’ se ne muore. ò charo averlo inteso, perché qua n’è assai, e non si sono achorti anchora, questi Bolognesi, che e’ se ne muoia. Però sarebe buono e’venissi di qua, che forse lo darebe loro ad intendere cholla sperienza, la qual cosa a lloro gioverebbe assai. Non ò da dirti altro. Io sono sano e sto bene, e spero presto essere di chostà.».
Michelangelo Buonarroti è in grado di rilevare l’anomalia di una malattia della quale il governo bolognese e i medici del luogo non si sono ancora resi conto. L’artista sottolinea la pericolosa sottovalutazione del fenomeno da parte dei bolognesi – e non si sono achorti anchora, questi Bolognesi – e che la diagnosi del fenomeno consentirebbe di affrontarlo tempestivamente con risultati positivi – “la qual cosa a lloro gioverebbe assai”-. Il nostro pensiero, che corre in parallelo, non può non ricordare le polmoniti anomale di dicembre e gennaio dell’altro anno, il mancato blocco delle grandi manifestazioni – trasferte sportive e fiere -, le apericene dei politici che volevano dimostrare che l’Italia non correva pericolo alcuno. E la scoperta del primo malato da parte di una dottoressa che violò il protocollo – esponendosi alla possibilità di essere gravemente sanzionata – sottoponendo il paziente a un tampone, che confermò l’ipotesi diagnostica. Sordi alla storia.
Alessandro Cecchi racconta successivamente i giorni di Michelangelo, alla fine del 1522, nella Firenze colpita dal morbo e durante la successiva epidemia del 1527-1528. Il distanziamento venne praticato da ogni famiglia. Molti si ritirarono nelle ville di campagna o in conventi isolati. Firenze venne dotata di una cintura sanitaria posta a circa 18 miglia dalla città e l’autorità sanitaria obbligava alla quarantena coloro che venivano da Roma – città in cui la malattia s’era inizialmente diffusa – o da luoghi sospetti.
Ciò che scrive Buonarroti al fratello significa che, nonostante fosse in una città colpita dal morbo, Michelangelo prestò la massima attenzione nell’evitare contatti. Preoccupazione che emerge proprio da un’esortazione al fratello stesso: «Non tochare le lectere che io ti mando chon mano.»