[I] critici d’arte? Semplicemente dei “cornuti”. E per nulla magnifici. Traditi dalla pittura del loro tempo, quella stessa che elogiano ad ogni piè sospinto. Ingannati “dal brutto, dal moderno, dalla tecnica, dall’astratto”.
In un testo degli anni Cinquanta, intitolato, appunto, I cornuti della vecchia arte moderna (oggi ripubblicato da Abscondita nella collana Miniature, 120 pagine, 13,50 euro; procedi all’acquisto cliccando sulla copertina qui a fianco), Salvador Dalí assume una posizione di aperta ostilità, quando non di categorico rifiuto, nei confronti di molte delle tendenze pittoriche allora preminenti.
Il pamphlet manifesta, sin dall’esordio, l’intento provocatorio dell’autore: con la consueta prosa iperbolica, il Nostro contrappone il genio francese, razionale e analitico, a quello spagnolo, da lui stesso definito “mistico” e per il quale non cela la propria predilezione.
Esprime la sua prostrazione dinnanzi alla “ribollita cartesiana” ove i critici fanno “crogiolare i loro errori più truculentemente corneilliani di cucina speculativa”, metafora gastronomica per gli abbagli interpretativi degli “esperti” di arte. In principio fu “l’adolescenziale ingenuità romantica di Arthur Rimbaud, che disse: ‘La bellezza si è seduta sulle mie ginocchia e me ne sono stancato’. E’ grazie a queste parole chiave che i critici ditirambici scoprirono le eccitazioni biologiche della bruttezza e le sue inconfessabili attrattive”. L’ideale estetico classico è stato così drammaticamente biasimato, stigmatizzato, addirittura censurato in quanto esempio di leziosaggine.
E “per avere l’approvazione dei critici, i pittori si affannavano a produrre il brutto. Più ne producevano, più erano moderni”. Gli esiti sono stati fatali: gli “ignominiosi” e anarchici quadri di Picasso e dei suoi proseliti “hanno assassinato l’arte moderna”. Una sentenza implacabile.
E’ la stessa nozione di modernità ad apparire sospetta a Dalí: “Nulla è mai invecchiato più rapidamente e più malamente di tutto quello che, a un dato momento, essi (i critici) hanno qualificato come moderno”. Sarebbe dunque più opportuno ricorrere all’espressione, meno vaga e imprecisa, di “classicismo artigianale”.
E Cézanne? Un’altra minaccia. “Egli voleva rifare Poussin ‘dal vero’, ossia secondo la nuova concezione della discontinuità della materia. E’ una sfortuna che il suo slancio apollineo sia stato rovinato dalla sua fatale inettitudine… Per patetica che sia la cosa, mai Cézanne è riuscito a dipingere una sola mela rotonda capace di racchiudere nel suo volume assoluto i cinque corpi regolari. E i critici ditirambici, in perfetto accordo con la mediocrità dei pittori cézanniani, non seppero che porre come imperativi categorici le deficienze, le goffaggini, le incapacità catastrofiche del maestro”.
Infine, Dalí schernisce l’astrazione, intesa come forma espressiva del tutto scevra di senso: l’uomo in quanto tale si evolve celermente, pertanto è inutile scacciarlo dalla tela a vantaggio dei cerchi e dei rettangoli. E scaglia un attacco pregno di acredine contro Piet Mondrian, eletto ad antesignano di questa tendenza: “Piet – sono io, Salvador, a dirlo -, con una i di meno, non è stato altro che un peto”. Dopo essersi proposto quale alfiere della “scultura isterica”, l’autore illustra la tesi della “paranoia critica” sviscerata vent’anni prima: una sorta di allucinazione consapevole e volontaria che, dietro a ciascuna immagine, ne crea un’altra, destinata a soppiantarla.
Non mancano suggerimenti ai giovani artisti, espressi da assiomi quali: “Pittore, non forzarti di essere moderno. E’ l’unica cosa che, sfortunatamente, comunque tu agisca, non potrai evitare d’essere”; o ancora: “Se ti vuoi assicurare un posto di prestigio nella società, bisogna che, fin dalla tua prima giovinezza, tu le dia un terribile calcione nella gamba destra”.
Ovviamente, la definizione di pittore non può essere applicata a chiunque si cimenti nella disciplina. Per assurgere a questo titolo e al contempo preservare le forze contro il dilettantismo narcisistico, il Nostro indica come imprescindibili tre attributi: anzitutto, è necessario possedere “talento e preferibilmente genio”; poi “imparare di nuovo a dipingere bene come Velázquez e, preferibilmente, come Vermeer”; infine “possedere una cosmogonia monarchica e cattolica quanto più assoluta possibile e di tendenze imperialiste”.
Quest’ultimo punto merita una riflessione esplicativa: il Dalí prosatore non cela l’ammirazione per il Dalí pittore, essendo persuaso della superiorità “monarchica” del pittore in generale. In altri termini, è sua ferma convinzione che non ci sia vera libertà se non sotto l’autorità di un sovrano. Un’idea coltivata sin dalla tenera età: da bambino soleva indossare un travestimento da re, aspirando a divenire – come il suo stesso nome gli faceva presagire – il Salvador, il salvatore della pittura. Così scrive nel suo Diario di un Genio: “Ogni sera, prima di coricarmi, invece di sfregarmi le mani, me le abbraccio con una gioia purissima, dicendomi che l’universo è poca cosa di fronte alla grandezza di un volto dipinto da Raffaello”. E giungerà ad asserire: “Fin dall’infanzia ho la viziosa tendenza di considerarmi diverso dai comuni mortali. Questo dura ancora, e continua a riuscirmi”.
L’estro di Dalí era tale da non poter essere confinato entro un’esperienza squisitamente pittorica: le sue riflessioni, i suoi giudizi arguti, i suoi motti erano sempre tesi a stimolare, sollecitare, scandalizzare. Non è un caso, a ben pensarci, che la morte dell’artista abbia destato un’eco così grande nell’opinione pubblica, persino maggiore rispetto a quella provocata dalla scomparsa del collega-rivale, l’“ignominioso” Picasso.