di Flavio Caroli
[L]e capitali della pittura settecentesca sono due: Parigi e Venezia. Per la prima, è tutto chiaro; da lì passa la storia, quella dell’ancien régime e di chi lo abbatterà: l’arte ha sempre amato i grandi padroni e i grandi fallimenti. Per Venezia il mistero è completo. Un immenso Cinquecento. Poi orizzonti provinciali in un Seicento peraltro più ricco di quanto non si dica. E crisi politica. Crisi economica. Crisi delle grandi famiglie che, già regine dei mari, si ritirano nelle enclave pedemontane. Presagio della fine. Ma sulla divina palude cala improvvisamente l’insensatezza della Grazia. Come definire altrimenti l’impensabile concentrato delle gemme più rare e preziose non solo prodotte, ma immaginate dalla mente umana, in cent’anni di fantasia che sono nello stesso tempo il distillato cromosomico dell’intera arte antica e moderna, e il piedistallo inevitabile su cui crescerà l’arte contemporanea? Per stravagante volere delle potenze celesti, che si appellano a un passato potenzialmente già morto e sepolto, sulla Venezia settecentesca si addensa il massimo, e più fallace miraggio di chi è nato alla vita: la Felicità. Felicità di cieli glauchi spalancati su infiniti trastulli, felicità di colori festevoli e comunque accordati, anche quando un verde pastello si sposi con aranci acerbi e di seta, o i rossi svaporino nel rosso ancor più sanguigno di tramonti immaginati da incalliti piromani; felicità di Eros, sì, proprio del sesso, che avanza le sue promesse con cosce d’avorio, con tibie filiformi, con piedini baciati dalla luce, con il più ricco campionario di seni (debordanti, esuberanti, forti, appuntiti, torniti, a capezzolo largo, a capezzolo eretto, a capezzolo ovato) proposto dalla prima Università del voyeurismo. Poi c’è la Grazia, o la fatalità, della ragione costruttiva. Perché nel celeste bordello appena descritto compaia ex abrupto Canaletto, sublime maestro della visione ordinata, una specie di Brunelleschi catapultato dalla sua Atene quattrocentesca nel settecentesco trivio di diavoli scatenati, è quesito privo di risposta. E infine ecco la Grazia definitiva, che vuole Venezia regina di torbidezza anche nell’ultimo commiato dell’arte dalla sua stagione “classica”. Torbidezza di Francesco Guardi, che capisce benissimo le metalliche argomentazioni intellettuali di Canaletto, ma gradisce sfrangiarle come cotone nella vertigine ottica che guiderà i due secoli di pittura che lo dividono da noi. Torbidezza del latteo fantasma denominato Canova, il quale finge di dettare i canoni della nuova forma d’Olimpo, ma non fa che contraddirsi, per nostri piacere e fortuna, impantanandosi continuamente nella vita, per esempio – uno soltanto – nel lungo, lungo cammino delle gambe di “Psiche”, e nella piega che le unisce al Monte di Venere, e nel poco che si vede del medesimo, e nel molto che si intuisce, e nel marmo del seno invasato nella mano di Cupido, marmo tenero come panna, nel quale le dita entrano per pressione carezzevole e vellutata. Grazia insensata (come forse è sempre la Grazia) guidata da una sola logica. La pittura. L’arte. Come fare arte e come sedurre con essa. Come produrre sublimità. Come farlo senza paragoni possibili nel mondo. Il resto, che importa? “Art pour l’art”: il motto che guiderà il pensiero figurativo contemporaneo è scritto in francese, ma in nessun luogo del mondo ha senso come nella Venezia del Settecento. E allora il senso del Settecento veneziano è tutto lì; nella strepitosa, virtuosa gratuità della Bellezza. Bellezza di spruzzi, di piume, di gesti, di sguardi, di luci opalescenti nel padre del Rococò, Sebastiano Ricci, che anticipa tutti di qualche lustro, e a tutti insegna le vie della declamazione e della superficialità. Fascino stregato di suo nipote Marco, che sprofonda campagne inesistenti nel chiarore abbacinato di giornate senza fine, con pastori, armenti e cavalieri sovrastati dal silenzio immenso e appagante dell’ultimo Paradiso perduto concesso all’umanità. Venustà larga e impassibile delle cascate di raso e d’argento precipitato sulla tela da Giambattista Tiepolo, nell’aria calda e uzzolosa dei pomeriggi estivi che dilagano sulla campagna vicentina. Seduzione madida e gentile di Rosalba Carriera, che nel pastello azzurro-rosato di una blusa interna tesori di vanità per riprendere i quali sarà necessaria la sadica consapevolezza di Degas. Bellezza perfino del Piazzetta, che frulla sì luci di torcia e ombre di cantina nel miscelatore caravaggesco, ma lo fa senza la canagliesca brutalità padana di Giuseppe Maria Crespi, e concede ai suoi rapinosi protagonisti il lampo agghindato per il quale gli dovranno gratitudine proprio i ritrattisti inglesi immediatamente successivi. Profonda, meditata attrazione dello stesso Pietro Longhi, del quale sarà bene dimenticare temporaneamente i temi pettegoli e vagheggini, per seguirlo là dove il suo pennello sembra in penombra, nelle penombre, appunto, che strisciano come lumache su vecchi letti e su muri gonfi di umidità, o su pavimenti toccati da luci polverose, nelle estenuanti assaporazioni di chi le cose le gusta a lungo, e con appetito insaziabile. Canaletto è più che bello, è sovrumano, perché ha la facoltà “metafisica” di possedere gli spazi, e di dilatarli. Nella storia della pittura è un unicum extraterrestre. Quando si trasferisce a Londra, la affronta dalla sponda sud del Tamigi, e per pura forza di geometria il fiume diventa un Oceano vaporoso che si spalanca verso orizzonti sconfinati, con la traccia illuminata di Westminster Bridge che funge da traguardo terreno per l’incommensurabilità di nubi tenuemente plumbee e tenuemente rosate, che aprono il cielo verso una totalità contro la quale batterà inutilmente il capo la stessa vertigine di William Turner. E quando si pensa che tanto genio frutta immediatamente nelle conclusioni del nipote Bernardo Bellotto, e ciò fa non sulla via di un’apertura ottica che Canaletto ha già spinto alle estreme conseguenze, ma su quella di una densità, di una veracità, di una fisicità diciamo pure pre-realistica; quando ci si avvede di questo impensabile passaggio di consegne, appare evidente che Venezia ha veramente dominato l’orizzonte su un arco di 360 gradi. Tanto più che manca ancora la chiusura, se possibile ancora più stupefacente delle infinite sorprese incontrate finora sul nostro cammino. Canova: chi era costui? Un talento “nato morto”, come ha sostenuto nientemeno che Roberto Longhi, o il supremo artigiano di una perfezione sublime proprio perché fuori tempo? Pare incredibile, né una cosa né l’altra. Canova è il frutto estremo, ma purissimo di una madre decrepita, la sensualità veneziana. Ma basta guardare il modello del “Monumento a Tiziano” per rendersi conto che la sua incompresa adolescenza si apre per forza intellettiva alla stupefazione metafisica di ciò che l’arte sarà in un futuro lontano. Corre l’anno 1795. E l’antro piramidale non sembra accogliere il lutto di una trapassata grandezza, ma custodire la Grazia, o la Felicità, di Venezia, punto di riferimento troppo alto e imprevedibile per non abbattere molte altre illusioni della storia dell’arte moderna; ma anche utile parametro per sapere in ogni istante chi siamo, da dove veniamo, e dove andiamo.