di Maurizio Bernardelli Curuz
Il direttore di “Stile” intervista il direttore dell’Accademia Carrara di Bergamo, Francesco Rossi, membro del Comitato scientifico della mostra “Fra’ Galgario. Le seduzioni del ritratto nel ’700 europeo” con Caterina Bon Valsassina, Arnaud Brejon de Lavergnée, Gabriele Finaldi, Francesco Frangi, Axel Hèmery, Stephane Loire, Bert W. Mejier, Amalia Pacia, Wolfgang Prohaska.
La mostra esplora anche un periodo nebuloso, quello relativo agli esordi del pittore. Cosa differenzia maggiormente, al di là dell’affinamento della tecnica, i ritratti degli esordi da quelli della maturità?
Gli esordi costituiscono il capitolo più problematico. Il pittore, secondo le testimonianze documentali, è nato nel 1655, ma la sua prima opera certa è del 1701, quando l’artista aveva 46 anni. Possiamo in verità tornare leggermente indietro nel tempo, al ritratto che raffigura Manganoni – opera che dovrebbe avere la paternità di Fra’ Galgario -. Comunque il dipinto non si colloca molto in là nel tempo, giacché siamo attorno al 1696. Anche in quel caso l’artista aveva più di quarant’anni. E in precedenza? Ciò che sappiamo dalle fonti – essenzialmente dal suo biografo, il Tassi – è che Vittore Ghislandi ha iniziato a Bergamo come allievo del Cotta e del Bianchini. Successivamente è partito per Venezia. Intorno al Novanta è tornato nella sua città natale (ed è qui transitato senza che noi, oggi, possiamo avere un’idea certa di cosa abbia fatto in quel periodo), ma è ripartito quasi subito per recarsi ancora nella capitale della Serenissima, dov’è entrato nella bottega del Bombelli . Ecco, Bombelli ha avuto la funzione dello spartiacque. Nel 1701 il nostro artista rientra nella città d’origine e, da quel punto in poi, possiamo trovare ritratti documentati. Ora dobbiamo ritenere impossibile che prima di allora non si sia salvato nulla, di Fra’ Galgario. Il fatto è che, precedentemente all’esperienza veneziana, l’artista aveva un’altra “mano”. E’ necessario quindi cercare tra i dipinti di quegli anni, in ambito bergamasco, per entrare in contatto con le opere che hanno preceduto l’esperienza nella capitale veneta. Per documentare l’ambiente degli esordi, abbiamo lavorato, a livello di mostra, sulla ritrattistica a Bergamo, ai tempi dell’apprendistato e della giovinezza di Fra’ Galgario, dipinti inscritti tra Baschenis e Ceresa, un maestro che lavora alla fine del Seicento. Abbiamo quindi esposto tre ritratti che, sulla base di un ragionamento complicato ma solido, potrebbero riempire l’ampia lacuna degli anni che hanno preceduto l’esperienza veneziana. Uno di questi quadri – da me rintracciato – è il ritratto di Domenico Ghislandi, il padre del pittore, un’opera che certamente è stata dipinta da Fra’ Galgario. E’ quindi possibile, stabilendo l’età del personaggio ritratto, collocare il quadro attorno al 1490. Possiamo così accendere una luce su un lungo periodo oscuro.
E a questo punto, evidenziando la continuità stilistica tra il ritratto del padre e gli altri dipinti che precedono l’esperienza veneziana, è più facile compiere percorsi attributivi con ampi margini di certezza…
Esiste una continuità stilistica, ma non così intensa da offrire certezze assolute. Il problema maggiore è costituito dal fatto che Bergamo ha avuto una forte tradizione pittorica legata al ritratto e una certa unità linguistica, contrassegnata da una forte attenzione alla realtà. I ritrattisti erano numerosi e il linguaggio traeva origine dal ceppo comune costituito dalla pittura del Moroni. Tra la morte del Ceresa (1676) e l’inizio dell’attività di Fra’ Galgario si collocano temporalmente ritratti che non possono essere ricondotti a un nome sicuro. Dobbiamo insomma lavorare sulle ipotesi. Può darsi che Fra’ Galgario sia l’autore di queste tele, com’è possibile che, tra il Ceresa e l’inizio dell’attività del religioso, si collochi un altro pittore del quale non conosciamo il nome. E’ comunque evidenziabile uno scarto molto netto tra la produzione bergamasca che potrebbe essere attribuita al nostro Ghislandi e i dipinti successivi. Quando esce dalla bottega del Bombelli è un pittore bombelliano. Passa cioè dal ritratto naturalistico, al ritratto sontuoso, ricco di elementi decorativi. Le opere del periodo postbombelliano sono inconfondibili.
Ma i suoi primi maestri erano ritrattisti?
Non esattamente. Uno, come dicevamo, era il Cotta, un artista che in gioventù era stato un buon ritrattista – ma come incisore -. A Bergamo era impegnato come pittore di opere religiose. Stesso percorso – dipinti sacri – era stato compiuto dal fiorentino Bianchini. A noi, della pittura sacra di Fra’ Galgario, non è giunto nulla. E anche questo è un problema.
Quindi, nonostante abbia avuto una formazione nell’ambito della pittura sacra, Fra’ Galgario si orienta al ritratto, fino a trovare nel Bombelli la prima chiave di volta stilistica.
Sì. Fra’ Galgario si reca a Venezia, imita il Bombelli e compie così bene il suo dovere, come si può arguire dalla biografia stesa dal Tassi, da suscitare l’invidia dello stesso maestro. Tra i due si innesca un conflitto, sicché Fra’ Galgario torna a Bergamo. I dipinti prodotti nel 1701-1702 si segnalano per l’estrema eleganza: i personaggi ritratti hanno incarnati delicati, molto sfumati, molto raffinati. Sono bombelliani. Eppure questa visione della realtà è destinata a mutare presto, a contatto con la concretezza dell’ambiente bergamasco. Nel momento in cui rientra a Bergamo, l’artista riscopre la pittura lombarda, che vuol dire soprattutto pittura della realtà. Siamo sicuri che lui ha studiato Moroni e Ceresa, anche se, possiamo dire, più Ceresa che Moroni. In ogni caso il periodo successivo al ritorno è caratterizzato da un mutamento della radice bombelliana sotto la luce di una riconversione naturalistica. Già nel 1705 la virata è stata compiuta. Il pittore perde quella passione veneziana che lo orientava ad edulcorare e a ingentilire le figure. Rappresenta la cruda realtà, rientrando cioè prepotentemente nell’ambito della cultura lombarda. Poi compie due ulteriori passaggi: alla scuola di Adler, quindi a Bologna (1717) dove scopre la pittura di Crespi, ricca e sontuosa, magniloquente. I ritratti di Fra’ Galgario diventano spettacolari, ma i volti restano veri, crudi.
Fra’ Galgario mostra in buona parte dei suoi dipinti una sorta di contemplazione sardonica della realtà. Non è solo una questione di realismo. Se Ceruti fornisce il dato oggettivo del reale, il pittore bergamasco pare inserisca un filtro che gli permette di esprimere, potremmo dire “tra le righe”, un giudizio rispetto alla persona ritratta proprio in base alla valutazione delle caratteristiche psicologiche del soggetto.
Sì, è molto presente l’aspetto della valutazione del personaggio, sulla base del rapporto di simpatia o di antipatia. Effettivamente Fra’ Galgario e Pitocchetto si muovono su un terreno simile, ma con modalità d’osservazione diverse. Sostanzialmente: Ceruti è più lucido sotto il profilo della critica sociale, colpisce una data categoria. Fra’ Galgario se la prende con determinati personaggi, con la persona che ha davanti a sé, e anche quando si parla di critica implicita, risulta meno evidente, in lui, l’approccio sociologico all’espressione pittorica. La mia sensazione personale è che non si ponga il problema della critica sociale, come avviene in Ceruti, ma che instauri un rapporto viscerale con la persona ritratta. La simpatia e l’antipatia sono fondamentali nella sua pittura. Ghislandi è un individualista assoluto che “sente” il personaggio e ne coglie il marciume nascosto. Il periodo è contrassegnato dalla decadenza della società bergamasca, e parlo di crollo, di decadenza verticale. Molto spesso Fra’ Galgario deve ritrarre imbecilli, nuovi ricchi, aristocratici che avevano da poco comprato il titolo, considerato il fatto che le classi più raffinate si erano a trasferite a Venezia, nella capitale. Per cui, in realtà, egli dispone di interlocutori molto diversi rispetto a quelli di Ceruti, che dipinge i ritratti dei grandi milanesi o dei grandi bresciani. Bisogna andare a rileggersi il saggio di Testori pubblicato negli anni Cinquanta su “Paragone” per avere una fotografia di questa società e, quindi, dei suoi esponenti.
Lo stesso Testori che, in qualche modo, attraverso la descrizione dei fanciulli che appaiono in alcuni dipinti di Fra’ Galgario contribuisce ad avallare la presunta omosessualità del pittore.
Credo che fondamentalmente tutto si basi su un paio di equivoci. Si dice che l’artista dipingesse malvolentieri le donne perché erano troppo sfacciate. Questa versione fu accreditata dallo stesso pittore e riportata nella biografia scritta dal Tassi. Ho l’impressione che il disagio nei confronti della donna rientrasse nelle fisime del vecchio frate perché poi, a dire il vero, ci ha lasciato bellissimi ritratti femminili, nei quali non compare nessuna forma di ostilità nei confronti dell’universo femminile. Certo. E’ acclarato. Si conoscono pochi ritratti femminili riconducibili alla sua mano. Ma ciò dipende molto dall’articolazione della struttura sociale dell’epoca. Le donne non avevano un ruolo pubblico e non costituivano elemento di rappresentanza. Poi, se vogliamo ben vedere, l’atteggiamento critico nei confronti dei personaggi femminile è molto più stemperato rispetto a quello esercitato nei confronti dei maschi. Passiamo poi all’altro equivoco, quello basato sui ritratti di ragazzini. Il punto è che questi ritratti non sono prodotti ad uso proprio. Erano richiesti dal mercato internazionale, che assorbiva appunto anche opere di questo genere. Guardare questi dipinti e presumere un atteggiamento pedofilo è una follia. E come dire che Brueghel odiava i contadini perché li rappresentava in chiave grottesca. Il discorso di fondo è che il grande successo di Fra’ Galgario a livello internazionale non si deve alla sua attività di ritrattista, ma proprio a queste tele.
Le ricerche degli ultimi anni, confluite nella mostra bergamasca, sono state tese anche in direzione internazionale. E’ dimostrabile l’influenza di maestri stranieri su Fra’ Galgario?
E’ un discorso che abbiamo affrontato parecchio a livello di comitato scientifico. Direi che il modo di concepire il ritratto è veneziano, a cui l’artista sovrappone la verità lombarda. Soltanto un numero limitato di opere (negli anni Venti del Settecento) rivela che l’artista conosceva molto bene la pittura francese, caratterizzata dalla morbidezza della posa. In gioventù il pittore aveva avuto qualche collegamento con la pittura centroeuropea. Ma nei dipinti non appaiono riscontri forti in tal senso. Piuttosto Fra’ Galgario entrò a far parte di quegli autori privilegiati dal mercato internazionale. Facciamo un esempio: il maresciallo Schulenburg era un grandissimo collezionista di Fra’ Galgario. Aveva raccolto tredici, quattordici opere, che collocava accanto ad altre cose importanti. Dipinti veneziani o francesi.
Di grande interesse risulta il capitolo finale della vita artistica del pittore. Come il vecchio Tiziano, Fra’ Galgario giunge a una pittura di sintesi, rapida, sommaria.
Sì. In vecchiaia, dopo il 1730, inizia a dipingere con le dita. C’è anche un motivo pratico dietro questa scelta, ma forse tutto non si esaurisce qui. Si suppone che l’artista soffrisse d’artrite e faticasse a controllare la motricità fine indispensabile per l’uso del pennello. L’indagine sulla superficie pittorica consente comunque di stabilire l’uso diretto delle mani. Pestava addirittura il colore con le nocche, evitando di tirarlo con polpastrelli – non abbiamo trovato infatti impronte digitali -. Attorno a questa manualità diretta è stata aperta una discussione molto accesa. Quanto la scelta è originata da motivi di salute e quanto, invece, è strettamente connessa con la ricerca di una pittura più materica? Risulta evidente il fatto che l’artista, al di là del possibile problema di controllo delle mani, giunge ad esplorare i riflessi interni del colore. E’ una forma estrema di realismo. Il ritratto non è soltanto immagine del personaggio, ma succo cromatico con cui fare i conti. Esistono, in effetti, consonanze con l’ultimo Tiziano, in un potenziamento della materia che quasi lambisce una linea astratta. Tassi riferisce il fatto che Fra’ Galgario studiava tantissimo Tiziano, in quanto sentiva il colore come entità in se stessa. In questo l’artista bergamasco è straordinariamente moderno. Le ultime sale della mostra provocano uno choc nello spettatore per la tecnica pittorica, per la straordinaria evidenza psicologica dei personaggi. Sono ritratti moderni. Bisogna viaggiare al di là di Courbet per trovare una pittura simile a questa.