di Gualtiero Marchesi
[S]i conclude in questo numero la “trilogia” che Gualtiero Marchesi ha voluto dedicare al genio di Kazimir Malevich. Dopo il “Quadrato nero su fondo bianco” ed il “Quadrato bianco su fondo bianco” – opere chiave dell’itinerario dell’artista russo – Marchesi eleva il suo inno alle più elevate e tipiche strutture compositive suprematiste. Uno dei piatti classici marchesiani, la costoletta alla milanese, è riproposto nella versione più “disarticolata” e frammentata: il vitello – tagliato alto, impanato e fritto nel burro – viene ridotto a dadini, così da permetterne la cottura su una superficie complessiva più ampia, con conseguente minore dispersione dei succhi e maggiore croccantezza. Queste le motivazioni eminentemente gastronomiche. Sul piano della rilettura artistica, invece, è evidente il richiamo a taluni capolavori di Malevich. Come, ad esempio, l’emblematica “Composizione suprematista”, del 1914, qui riprodotta. Analoga è la frammentazione formale, analoga la negazione prospettica, analoga la tensione all’obliquità sul mare placido della campitura bianca (qui il piatto, là la tela). Il tutto in quella “inconsistenza dello spazio chiuso” che in Malevich si appalesa con forza sconvolgente, facendoci credere che ogni elemento fluttui in un cielo incommensurabile, vi si blocchi in un castone cristallizzato di geometrie inconsuete, ma pronto a liberarsi, a fuggir via, verso altri angoli di questo universo che non ha forma perché è tutte le forme, che non ha colore perché tutti i colori racchiude in sé. Un universo senza gravità che – dalla tela di Malevich, dal piatto di Marchesi – consente ad ogni tessera del mosaico di perpetuare la propria equilibrata e solenne solitudine. (e. g.)