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Arte e follia, si sa, vanno spesso d’accordo. Ed anche Gerrit Dou (1613-1675), primo allievo di Rembrandt nonché esimio esponente della scuola di Leida e fondatore del movimento dei fijnschilders, i “pittori raffinati”, è da ascriversi al nutrito novero di artisti tormentati da comportamenti maniacali.
Il suo, tuttavia, costituisce un caso atipico: egli era vittima non di inconfessate pulsioni sessuali o di un inestinguibile stato depressivo, bensì dell’ossessione per l’ordine e la pulizia. I cronisti dell’epoca attestano che vietava l’ingresso al suo atelier a chiunque potesse “contaminarlo”. Memorabili le veementi intemperanze e gli sfoghi incontrollati cui si lasciava andare di fronte a persone giudicate non sufficientemente linde. Aborriva il più piccolo granello di polvere, tanto da interrompere la propria attività per giorni interi se ne intravedeva anche solo uno posarsi sul cavalletto.
Questa fissazione veniva con puntualità traslata nelle tele, che pure riscuotevano tanto successo presso i committenti: qualsiasi scena d’interno Dou dipingesse, si trattasse della modesta cucina di una donna del popolo o di una taverna animata da figure di genere, doveva rispondere al suo personalissimo criterio… igienico. A ciascun oggetto, terso come se mai nessuno l’avesse usato prima, era assegnata una collocazione precisa, tale da non ledere la metodica armonia dell’ambiente rappresentato: non un utensile fuori posto, non un tavolo non abbastanza lustro, non una posa men che aggraziata degli effigiati.
Così, nell’umile e disadorna stanza in cui la vecchia consuma la propria zuppa, ogni cosa è attraversata da una sorta di inerzia generale. L’arcolaio giace immobile quasi a non voler turbare la quiete circostante, il vasellame e il lume appeso al soffitto sono perfettamente lucidati, persino le fenditure dei tramezzi e del pavimento paiono immuni dalla polvere.
Bandito qualsiasi cenno alla più flebile oscillazione, tutto sembra avulso dalla realtà, come privo di vita. Anche l’anziana donna – in cui è stata identificata la madre di Rembrandt -, nel suo atteggiamento compito e taciturno, si direbbe aliena alla sua stessa casa.
L’ossessione di Gerrit Dou si palesa altresì nella ricerca quasi morbosa dell’illustrazione di ogni particolare, nel tratto “pulito” e meticoloso utilizzato per descrivere il singolo elemento, secondo un rigore assolutamente estraneo al suo grande maestro, che prediligeva rappresentazioni più omogenee, dove gli oggetti apparissero inseriti nel contesto globale.
Il Ritratto d’uomo che scrive nello studio di un artista rivela non poche affinità di carattere compositivo con il dipinto di cui abbiamo ora parlato.
Anche in questo caso l’interno è rischiarato a sinistra da una finestra a battenti, mentre sullo sfondo si nota una scala a chiocciola simile alla precedente. Diverso è invece lo strumento da lavoro: non più un arcolaio ma un cavalletto. Agli oggetti domestici – scope e recipienti – sono subentrati attributi marziali – l’elmo, lo scudo e il tamburo in primo piano – ed emblemi di vita contemplativa – un violino, un mappamondo, un libro e una candela visibili in lontananza, lievemente celati dal semibuio -.
Il protagonista siede davanti al cavalletto, la schiena curva su di un tomo voluminoso su cui sta scrivendo o disegnando. Come di consueto, l’interno è stato sottoposto alla più scrupolosa pulizia: il pavimento ripetutamente lucidato, il lampadario e il corredo militare lustrati con zelo e pignoleria, così da eliminare la più timida ombra.
In questo tempio sacro e inviolabile non sono ammessi intrusi – a meno che non accettino di subire un’accurata sterilizzazione -, ed ogni singolo acaro viene esiliato con un tenace colpo di ramazza. Chissà quale uso sconsiderato avrebbe fatto dell’aspirapolvere il nostro Dou, se solo l’aspirapolvere, a quel tempo, fosse già stato inventato.