Protagonista del Futurismo, il toscano Gino Severini è l’unico artista europeo a trovare la formula di raccordo con il Cubismo. Poi la svolta e l’approdo a una pittura “classica” fondata sull’armonia e sulla geometria “poetica” della rappresentazione del mondo reale
di Enrico Giustacchini
[A]nche quando, assorbito dal vortice delle avanguardie, sembrava dissolvere futuristicamente le forme in sincopati tasselli o cubisticamente scompaginarle in piani dissezionati, anche allora Gino Severini pensava al visibile e all’ineludibilità della sua rappresentazione.
Veniva da un apprendistato in ambito divisionista, Severini. Agli inizi del secolo scorso, il giovanissimo Gino – che da Cortona, dov’era nato nel 1883, si era trasferito a Roma – frequentava nell’Urbe, insieme a Boccioni, l’atelier di Giacomo Balla; e proprio Balla lo aveva introdotto al Divisionismo. Divisionismo che assumerà nei suoi quadri sempre più le connotazioni del Pointillisme quando egli si trasferirà a Parigi, arrivandovi “in una domenica mattina d’ottobre, grigia e piovosa” del 1906.
[box type=”shadow” width=”650″ ]LETTURA CONSIGLIATA – CLICCA QUI E ACQUISTA IL VOLUME
La vita di un pittore
di Gino Severini
Prezzo: € 32.00
Le città a cui mi sento più profondamente affezionato sono Cortona e Parigi: nella prima sono nato fisicamente, nella seconda intellettualmente e spiritualmente. È questo l’incipit de “La vita di un pittore” di Gino Severini (1883-1966), non solo un documento indispensabile per conoscere uno tra i più importanti pittori del Novecento, ma soprattutto un affascinante, vivissimo affresco della irripetibile stagione artistica che si visse a Parigi nei mitici anni Venti e Trenta[/box]
“Io ho eletto Seurat come maestro una volta per tutte” annoterà il pittore. In realtà, presto le cose cambieranno, le certezze si incrineranno; e già in opere come Printemps à Montmartre, del 1909, la scomposizione geometrica del soggetto lascia presagire l’approdo al Futurismo, che è oramai dietro l’angolo.
Severini sarà uno dei protagonisti del movimento ideato da Marinetti. Nel 1910 firma il Manifesto dei pittori futuristi e il Manifesto tecnico della pittura futurista. Nel 1912 partecipa alla mitica mostra alla Galleria Bernheim-Jeune. Nel 1913 – anno della prima personale alla londinese galleria Marlborough – scrive Le analogie plastiche del dinamismo.
La sua interpretazione della filosofia futurista sarà assolutamente peculiare, assolutamente riconoscibile. Non solo per la preferenza accordata a temi lievi e giocosi, a presenze vive e confidenziali – le celeberrime danzatrici -, rispetto alla ridondante apologia della macchina e del progresso sferragliante dei compagni di avventura; ma altresì per quella pervicace, indistruttibile tensione al palpito spirituale – ciò che egli stesso chiamava emozione plastica – mai negata nei dipinti dell’epoca, a dar corpo (per usare le parole di Daniela Fonti) “alla sua ‘smisurata’ ambizione di restituire sulla tela l’impressione globale della forma in movimento entro uno spazio concepito come ‘ambiente’ (e dunque dotato di suoni, rumori, odori), rivissuto nella memoria e trasfigurato dall’emozione individuale dell’autore”.
Le intime inquietudini di Severini lo portano presto ad abbandonare il Futurismo, che pure lo acclama tra i suoi condottieri. Nel 1916, chiuso nello studio, lontano dagli strepiti, l’artista ha un’illuminazione. E’ un lampo, anzi due. Il Nostro – soffocato, una volta ancora, dall’emozione – si arrende nostalgicamente alla più classica delle pitture. E lo fa con due ritratti della moglie Jeanne, la figlia del grande poeta Paul Fort, che ha sposato, lei sedicenne, nel 1913. E’ un anticipo appena di ciò che succederà di lì a poco. Poi, Gino si rituffa nel ciclone avanguardistico. Amico di Picasso, Braque e Gris, il naturale approdo della sua ricerca non può che essere il Cubismo.
Nelle opere cubiste dell’italiano, le forme rallentano la loro ilare, rotante sarabanda fino a giacere sulla tela in una perentoria piattezza. Perduta la propria consistenza, esse nascondono tuttavia – dietro la parvenza di un mortale irrigidirsi – un’imprevedibile vocazione dinamica, determinata dal sapiente ricorso allo slittamento dei piani.
Un linguaggio ancora una volta unico e inconfondibile. Severini è ben conscio di essere il solo pittore in Europa ad aver trovato la formula di raccordo tra Futurismo e Cubismo, in una sintesi degli aspetti cardine dei due movimenti, che giganteggiano da rivali nella battaglia delle avanguardie e che marchieranno a fondo e per sempre i destini dell’arte.
La strada è segnata, dunque? Una strada larga, diritta, in dolce discesa? Niente affatto. Il 1920 è per l’incontentabile Gino l’anno buono per un’altra svolta. O meglio, per la madre di tutte le svolte.
Il 1920 è l’anno in cui il visibile si riaffaccia prepotentemente, nitidamente, indiscutibilmente alla ribalta nei suoi quadri, senza mediazioni. I due lampi sprigionati dal cavalletto nel 1916 sotto le sembianze di ritratti della moglie non sono balenati invano. Quei lampi erano, lo si accennava, il prologo a qualcosa di più grande. Di più grande e – lo riveleranno d’ora in poi i nuovi dipinti – di più luminoso, come se a brevi accensioni del mantello nero della notte fosse seguita un’alba scintillante, senza nubi e senza fine.
Certo, il clima – nel 1920 – era più che favorevole: in ogni angolo d’Europa si inneggiava al “ritorno all’ordine”. Ma sarebbe limitativo individuare in ciò la molla del repentino cambio di direzione dell’artista. Scriverà Carlo Ludovico Ragghianti che l’“assunzione delle apparenze naturali” fu provocata piuttosto da “una disposizione nativa, una stabilità profonda di vocazione nel suscitamento delle forme”.
Quindi, chiosa Daniela Fonti (La bella pittura, Marsilio), non si trattò “di una conversione immotivata né dell’aspirazione a un superficiale aggiornamento… Vale a dire che nella lunga carriera del cortonese, segnata da forti ‘cesure’ e da coraggiose alternanze fra l’inclinazione alla rottura linguistica e il rinnovato abbandono al fascino delle forme visibili, l’elemento della continuità sta nel fondamento teorico che, in ogni stagione, sostiene la sua pittura e la tiene lontana da adesioni a formule inventate da altri, entusiasmi improvvisi risolti in immotivati arbitrii”.
Un filo rosso, dunque, sempre presente, anche se talora in apparenza sepolto, o aggrovigliato entro i labirinti, irradiato nelle schegge della sperimentazione avanguardistica, quando i profili del mondo reale sembrano scorie residuali, labili tracce di miti ancestrali dimenticati.
Dal 1920, Severini smette di “giocare” con lo scombussolamento spavaldo delle regole codificate e sedimentate nei secoli dalla tradizione. Egli avverte, con un brivido, che la rivoluzione, in pittura, porta con sé il virus insanabile della soggettività. Aveva già intuito, nella breve fase cubista, che l’universalità possibile della rappresentazione delle forme nello spazio sta solo nella geometria. Ma ciò non gli basta più: la voglia di profondità si fa pressante, le sue tele reclamano un’altra dimensione, il suo cuore e la sua mente la esigono.
Gino ha studiato a lungo, in quei mesi, i trattati antichi, rinascimentali, secenteschi. E ha studiato con rigore e applicazione testi matematici. Ciò a cui aspira è, a ben vedere, soltanto l’armonia, l’armonia senza tempo e senza confini; continua a credere – anzi, il suo convincimento si è rafforzato, sulla base della lezione dei maestri del passato – nel ruolo decisivo della geometria, cui assegna però ora un valore ulteriore, ossia proprio quello di equilibratore armonico della composizione: attribuendo alla stessa, così, inattese qualità poetiche. “Oggi siamo persuasi che la geometria sia una scienza arida, indegna di un artista – dichiarerà nel 1921 nel saggio Du Cubisme au Classicisme, emblematicamente sottotitolato Esthétique du compas et du nombre, estetica del compasso e del numero -. Se la conoscessimo meglio, sapremmo invece che è pervasa di sensibilità e di intuizione”.
Severini si butta con il consueto entusiasmo nella nuova avventura. “Scopre” l’incanto dell’affresco, dedicandosi con grande impegno dapprima alla decorazione “profana” di un castello a Montegufoni, vicino a Firenze, poi a quella sacra in Svizzera, a Semsales e La Roche, che riflette il riavvicinamento al cattolicesimo – avvenuto a seguito dell’incontro con Jacques Maritain – e la vena mistica e spiritualistica che ne è derivata.
Sul finire degli anni Venti, e per il periodo successivo, Gino sembra subire sempre più la malia delle civiltà trascorse. Si reca spesso a Roma, i cui monumenti – il Foro, in particolare – ispirano diverse sue opere, dove ogni effetto retorico è annullato dalla presenza di personaggi irriverenti, che altro non sono se non maschere della Commedia dell’Arte, in una sorta di ironico contrappunto tra due simboli antitetici della nostra tradizione e della nostra cultura. Sperimenta e fa propri tecniche e modi dell’espressione figurativa di Roma antica, dalla pittura “minore”, al mosaico, all’affresco pompeiano. Continua a dipingere, a inventare, a teorizzare.
Non si stancherà mai di farlo, talvolta anche tornando sui suoi passi (negli anni Quaranta si riaccosterà alle primitive esperienze cubofuturiste), non disdegnando incursioni nell’astrazione. Gino Severini muore a Parigi nell’aprile del 1966.