di Maurizio Bernardelli Curuz
“Stile” intervista Raffaella Morselli, curatrice con Andrea Emiliani della mostra “Gonzaga. La celeste galeria. Il museo dei duchi di Mantova”, in programma nella città virgiliana fino all’8 dicembre.
Il progetto è davvero gonzaghesco. Si basa cioè su una sfida estrema che riecheggia mitiche utopie come la ricostituzione della biblioteca d’Alessandria: riportare a Mantova un nucleo consistente, e comunque fortemente indicativo, delle collezioni d’arte dei Gonzaga, ricollocandole con le modalità espositive del Seicento, periodo in cui il museo privato raggiunse il massimo fulgore. Come sono avvenute le ricerche?
Il dottor Zorzi (Centro internazionale d’arte e cultura di Palazzo Te) chiese ad Andrea Emiliani e a me di lavorare su una mostra dedicata alle collezioni dei Gonzaga. Sin da quel momento si fece chiarezza sullo scopo degli studi e delle ricerche, che non era quello di realizzare una mostra dedicata ai capolavori – considerati come opere isolate – raccolti dai Gonzaga e nemmeno, ad esempio, quello di mettere in luce il ruolo di figure che si stagliassero in ambito collezionistico, come Isabella d’Este. L’indagine doveva essere più ampia e articolata. Io sono una studiosa di storia del collezionismo. Da anni lavoravo sul rilevamento degli inventari legali delle collezioni gonzaghesche, mettendoli in relazione ai documenti e agli oggetti dispersi. Mi si prospettava la possibilità di sviluppare un appassionante metodo di lavoro. Avevo a disposizione tutti gli ingredienti: un palazzo vuoto – Palazzo Ducale – nel quale era collocata, fino al Seicento, una straordinaria collezione, un inventario legale di quell’epoca che descrive i beni e la loro originaria collocazione, e soprattutto un archivio Gonzaga pressoché integro. Si trattava di sovrapporre questi elementi, così da definire il modello.
Un’impresa titanica…
Be’, diciamo che nel momento in cui abbiamo prospettato di fronte a noi l’obiettivo – e la strada per poterlo raggiungere – sembrava un’impresa da pazzi. Chiesi comunque di poter mettere assieme un gruppo di lavoro che vagliasse con me l’archivio Gonzaga per creare una banca-dati che potesse essere utilizzata dai vari curatori. Abbiamo così schedato diecimila documenti.
Quindi sono stati preparati i presupposti per l’identificazione delle opere disperse. Voi, attraverso i documenti, avete fornito precisi identikit dei dipinti o degli oggetti dispersi.
Sì. Fornendo questo supporto ai diversi esperti di settore era possibile favorire l’identificazione degli oggetti. Pensi che lo studioso che si occupa di bronzetti ha identificato in Europa ben 35 pregevoli pezzi provenienti dalle collezioni gonzaghesche. L’identificazione dei dipinti – se ne conoscevano un’ottantina, oggi collocati in diversi musei europei – è giunta a quota duecentocinquanta…
E la mostra mette in evidenza il museo perduto.
In maniera provocatoria possiamo dire che le collezioni dei Gonzaga configuravano un museo, e comunque lo spazio era gestito con funzioni museologiche. Certamente le collezioni non erano accessibili al grande pubblico – almeno secondo quell’idea di pubblico, ampio ed eterogeneo, che contrassegna il concetto, ai nostri giorni -, ma gli oggetti erano ordinati secondo precisi criteri d’esposizione. Si era giunti, infatti, alla musealizzazione del palazzo, persino con sontuosità virtuosistiche. Si era arrivati a configurare un museo nel museo, se si considera che gli scrittoi erano stati trasformati in quinte espositive in miniatura. Questa visione è specchio della mente ordinatrice di Ferdinando Gonzaga, l’ultimo duca di Mantova, il sesto, richiamato in patria da Roma per necessità di successione. Ferdinando era tornato da Roma nel 1612. Quando assunse la responsabilità del palazzo trovò dotazioni artistiche ricchissime, che necessitavano di un lavoro di sistematizzazione. Cercò allora di riordinare, di collocare gli oggetti d’arte secondo una logica espositiva ben precisa. Nacque così un museo ante-litteram, il museo più importante d’Europa, talmente importante che tutti non potranno fare altro che guardare a quel sistema.
Il massimo fulgore, la caduta precipitosa. Quell’opera straordinaria che è la galleria dei Gonzaga, rifinita, ricca, splendida, tocca l’apice con Ferdinando e, in pochi istanti, viene letteralmente disintegrata dalla storia.
La dispersione delle tele e degli oggetti d’arte avviene in due fasi. La prima è contrassegnata dalla vendita di 150 quadri e di un centinaio di statue a Carlo I d’Inghilterra, che non ha una vera collezione e che cerca di colmare rapidamente il gap. Carlo I capisce che, per essere un monarca moderno, è necessario dotarsi di un’articolata raccolta d’arte, anche se deve recuperare, a nome del trono inglese, 150 anni di ritardo. Allora corre, briga e, in un decennio, con ingenti acquisti colma totalmente la lacuna. Per essere avvantaggiato, in questa corsa, punta alla collezione più importante collocata, in quel momento, in un quadro geo-politico debole. Mantova è appetibilissima proprio per la stratificazione di materiale d’altissimo livello. E’ la seconda fase ad essere terribilmente devastante. Siamo nel 1630-1631. Ecco il sacco sistematico della città. I lanzichenecchi scendono dal Nord, compiono saccheggi, si comportano come cavallette bibliche, strappano gli arazzi; le meretrici si vestono con i ricchi capi dei guardaroba ducali, le camere del tesoro sono profanate, i cristalli vengono buttati a terra. Il palazzo – o meglio: ciò che stava nel palazzo e ne costituiva l’anima – sparisce in un istante… Ciò ne blocca ogni possibile processo di decadenza. Cristallizza il ricordo della galleria, contribuisce a diffonderne l’immagine mitica di palazzo più bello del mondo. Per tutta Europa risuona, cupa, l’eco del saccheggio e dello sfregio nei confronti di una città nobilissima. Nelle corti europee ci si chiede che fine hanno fatto quei quadri. Noi, come seguendo quell’antica scia luminosa, li abbiamo recuperati.
Basandovi sull’antica catalogazione degli oggetti presenti a Palazzo Ducale, vi siete posti all’inseguimento dei pezzi raminghi per ricostituire, almeno in parte, la galleria perduta.
Offriamo ora una sintesi del museo dei Gonzaga. Noi non creiamo sezioni, ma proponiamo quadri e oggetti ordinati rispetto alla collocazione e al raggruppamento originali… la “libraria” di Ferdinando, le pergamene, la serie delle copie dei trionfi del Mantegna, la “bambina pelosa” di Lavinia Fontana… Tutto com’era a quell’epoca.
Un museo barocco che non seguiva criteri storiografici, ma era finalizzato a suscitare la meraviglia.
Sì, la “maraviglia”, come dicevano allora.
Il museo come status symbol. Non v’era dinastia, non v’era potere in linea con la modernità che potesse esimersi dal collezionismo.
Le collezioni dei Gonzaga erano originate da motivazioni dai diversi risvolti. Offrivano certamente un’immagine di potere, ma in massima parte erano specchio del piacere personale dei collezionisti. Disporre di una collezione di quelle dimensioni – soprattutto mantenendo uno standard qualitativo elevatissimo – non era da tutti. Ciò costituiva certamente un elemento distintivo.
Da quanti pezzi era composto il museo ordinato da Ferdinando Gonzaga?
Nell’inventario di cui disponiamo sono elencati 20mila oggetti preziosi e 1800 quadri. Erano tutti collocati nel Palazzo Ducale di Mantova.
Chi erano i visitatori?
Viaggiatori che presentavano particolari referenze, ambasciatori, principi o pittori che chiedevano di copiare alcuni quadri. Possiamo dire che Ferdinando non aveva il concetto del “bene privato”.
I Gonzaga avrebbero potuto rappresentare un soggetto particolarissimo per l’approfondimento degli studi freudiani. Il collezionismo come disturbo…
Io sono convinta che ci sia una sorta di trasmissione genetica dell’ansia da collezione. I Gonzaga sono colpiti da un’autentica bulimia collezionistica. Si trasmettono una cultura modellata sulla qualità, si rendono protagonisti di investimenti personali che sono di tipo ossessivo. Prendiamo Vincenzo. Vincenzo è un tipo fortemente ossessivo, bulimico. Con lui la collezione è al top. Vincenzo, sul letto di morte, non si fa portare il crocifisso più bello di cui dispone il palazzo, ma i suoi tesori. Li vuole toccare, li vuole sentire accanto a sé. Da Isabella in poi, c’è un tramando dei pezzi migliori.
Ora vorremmo chiedere perché a Mantova è mancata una scuola pittorica locale.
E’ stato il collezionismo gonzaghesco a limitare la crescita di artisti locali, che erano in realtà impegnati nella grande galleria, con mansioni che potremmo definire di servizio. Il motivo? I Gonzaga acquistavano soprattutto le opere di artisti accreditati. Compravano il meglio di ciò che appariva sul mercato.