Fino al 31 agosto, la Chiesa-Museo di San Francesco a Montefalco (Perugia) ospita la mostra “Benozzo Gozzoli (1420-1497). Allievo a Roma, maestro in Umbria”. Abbiamo rivolto alcune domande a Giovanna Capitelli, tra i curatori scientifici dell’evento.
Possiamo ripercorrere brevemente le tappe fondamentali che hanno segnato la vita artistica di Benozzo Gozzoli, maestro che seppe fare sua la lezione dei grandi innovatori fiorentini del tempo?
Benozzo è stato un artista davvero particolare. Molto maltrattato dalla critica del Novecento, dal Berenson al Longhi (che addirittura lo definiva “autore di cartoni colorati”), riceve con questa mostra la meritata “riparazione” ai torti valutativi ricevuti. Benozzo cresce professionalmente in un’epoca fondamentale per lo sviluppo dell’arte e della storia fiorentina, quando nella città operavano pittori importantissimi come Beato Angelico, Filippo Lippi, Paolo Uccello, Domenico Veneziano e Piero della Francesca. Intorno al 1445 lo troviamo come collaboratore nella bottega di Ghiberti, grande scultore del bronzo, che stava allora lavorando alla Porta del Paradiso del Battistero. Successivamente si distingue come il primo allievo di Beato Angelico, sia a Firenze (a San Marco), che a Roma, negli affreschi della Cappella Niccolina, commissionata da papa Niccolò V nei Palazzi Vaticani. Ricordiamo che in quegli anni Roma tornava ad essere un fondamentale centro di produzione artistica e culturale. Benozzo dunque frequenta proficuamente gli ambienti più stimolanti del tempo. Ma l’intento della mostra è quello di evidenziare non solamente il suo passaggio lungo la linea direttrice che attraversa il Quattrocento – analizzandone l’evoluzione dal ruolo di semplice collaboratore di altri pittori, a quello di consocio, fino all’affermazione come maestro, detentore di un proprio personale linguaggio -, ma anche e soprattutto di testimoniarne l’autonomia, caratterizzata da un ritorno stilistico verso il mondo tardogotico, verso l’esempio di Gentile da Fabriano. Pensiamo ad esempio alla “Cappella dei Magi” realizzata a Firenze. Benozzo rientra in città dopo aver viaggiato in tutta l’Italia centrale, e qui riceve questa commissione da parte dei Medici: famiglia che all’epoca cominciava ad affermarsi per ricchezza e potere, che aveva come modello quello delle corti borgognone, dove ori e broccati rappresentavano il massimo del lusso… Benozzo si fa interprete di tale “revival” del gusto tardogotico, di cui è ulteriore, splendida testimonianza la “Pala della Sapienza Nuova”, dove sono raffigurati tutti i dotti e gli eruditi del tempo, su uno sfondo d’oro con motivi di broccato.
Anche nel ciclo di Montefalco è evidente questa tensione al tardogotico.
Infatti, le “Storie di San Francesco”, a cui il recente restauro ha restituito la piena leggibilità e che rappresentano uno dei massimi capolavori dell’affresco quattrocentesco, sono la prima testimonianza dell’avvenuto raggiungimento dello stato di “maestro indipendente” di Benozzo, che li realizzò insieme alla sua bottega negli anni tra il 1450 e il 1452. Osservandoli è possibile comprendere l’inizio di quella svolta. Benozzo mostra doti di efficace narratore. Egli aveva davanti a sé due grandi esempi da seguire: da un lato Giotto, e gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, dall’altro le ricerche compiute con l’Angelico a Roma, che erano in linea con quello stile che è stato poi proprio di Masaccio e Brunelleschi. E il risultato è quello di una personale rivisitazione dei loro modelli.
Questa mostra è incentrata sull’attività giovanile del pittore, mettendo a confronto con quelle di Gozzoli anche opere di altri autori, in modo da rendere possibile la comprensione delle influenze che agirono sulla sua formazione…
In mostra si propone la tesi di non considerarlo legato solo al Beato Angelico. Infatti, si può ad esempio osservare – nel gusto compositivo e nell’impaginazione prospettica – l’influenza netta del Ghiberti. Quest’ultimo fu una figura fondamentale nella formazione di Benozzo, sebbene il suo ruolo da tale punto di vista sia stato molto sottovalutato. Presente nell’esposizione è la splendida Predella della “Pala della Purificazione” – oggi smembrata tra i musei di Berlino, Milano, Philadelphia, Londra e Washington e ricomposta eccezionalmente per l’occasione -, opera del 1461 in cui Benozzo guarda con grande evidenza a Ghiberti. Fulcro della prima sezione, fra i manoscritti miniati, è poi un pezzo straordinario proveniente dalla British Library: il cosiddetto “Manoscritto Harley 1340”: la serie di miniature dei “Vaticinia pontificum” testimonia l’attività di Benozzo anche all’interno di quel circuito composto da grandi miniatori di codici come Zanobi Strozzi, Apollonio di Giovanni, Pesellino.
Vuole citare qualche altra opera meritevole di particolare attenzione?
Un’opera fondamentale è senz’altro la “Pala dell’Umiltà” proveniente da Vienna, probabilmente voluta dallo stesso committente degli affreschi di Montefalco. Di Beato Angelico citerei il cosiddetto “Trittichetto Corsini”, che giunge da Roma: un pregevolissimo oggetto di devozione privata. Sempre dell’Angelico citerei anche la Predella della Pala, realizzata per la chiesa di San Domenico a Perugia.
Trucchi del mestiere: I dipinti clonati di Benozzo
La mostra di Montefalco propone anche una serie di materiali inediti di studio che permettono di comprendere il funzionamento della bottega di Benozzo Gozzoli, le tecniche pittoriche utilizzate, l’organizzazione dei cantieri. “Abbiamo rintracciato tra l’altro” informa Giovanna Capitelli “alcuni fogli di un taccuino provenienti da Rotterdam (Museum Boijmans Van Beunigen), che presentano sul recto disegni eseguiti dal maestro e sul verso quelli degli allievi. Il reperimento di questo notebook è particolarmente significativo – sono infatti pochi i taccuini di bottega pervenuti -, e ci consente di analizzare qual era la pratica seguita dagli aiuti di Benozzo. Pratica che si divideva in due direzioni: da un lato l’esecuzione di disegni preparatori, che venivano realizzati sia per gli affreschi che per le opere su tavola; dall’altro la ‘copia autografa’, ovvero l’esecuzione da parte dello stesso maestro di una copia dell’opera realizzata, probabilmente pensata al fine di trattenere l’immagine per un successivo utilizzo (è il caso ad esempio di una ‘Testa di vescovo’ che compare sia negli affreschi di Montefalco, che in quelli di San Gimignano). Tale gioco di rimandi interni ripropone una pratica medievale, in questo caso ben testimoniata”.