[G]uance turgide come pesche, barba irta e spinosa come ricci di castagna, capelli ispidi come spighe di grano: questa è l’arte di Giuseppe Arcimboldo (1527-1593), apprezzato ritrattista alla corte dell’imperatore Massimiliano e, in seguito, di Rodolfo II.
L’originalità della sua opera risiede nella capacità di coniugare il gusto nordico per la raffigurazione naturale e realistica degli oggetti con lo spirito intellettualistico e concettoso tipicamente cinquecentesco. I suoi ritratti allegorici, composti integrando oggetti diversi – soprattutto fiori, frutta e verdura – in sembianze antropomorfe, riscossero un grandissimo successo presso l’ambiente praghese, in quanto la commistione di naturale e artificiale, di licenza e regola estrosamente accostate incarnava appieno il clima culturale della capitale boema, frequentata al tempo da astronomi, maghi, alchimisti e artigiani, impegnati nei mutamenti più straordinari della materia naturale.
Si tratta di una pittura illusionistica, fantastica e minuziosa, legata tanto al Manierismo quanto all’allegorismo tardo-cinquecentesco. E, per certi aspetti, all’alchimia, giacché la rappresentazione, che unisce il tutto all’uno (i frutti o gli animali che formano una figura), è la trasposizione simbolica dell’en to pan, dell’uno nel tutto e del tutto nell’uno, tipico delle dottrine ermetiche dell’epoca. E, come ben sappiamo, quella di Rodolfo fu una corte permeata dalla cosiddetta arte regia, cioè l’alchimia.
La seduzione emanata dalle opere di Arcimboldo fu accolta da alcuni “arcimboldisti” che diffusero, attraverso una minima interpretazione, i moduli aurei del maestro. Le opere erano destinate ad ornare sale da pranzo o luoghi nei quali non fosse necessaria la debita, trionfale celebrazione dei padroni di casa attraverso i soggetti alti, legati al ritratto, alla pittura di storia o alla mitologia.
Appassionato arcimboldista fu Antonio Rasio, artista lombardo del XVII secolo poco noto alle cronache. A lui è stata recentemente attribuita la composizione delle tele rappresentanti le quattro stagioni, realizzate intorno al 1685-1695 – quindi più di un secolo dopo l’invenzione del caposcuola – e conservate alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia. Diversamente dai soggetti ritratti dall’Arcimboldo, tutti a mezzo busto, le personificazioni di Primavera, Estate, Autunno e Inverno vengono effigiate da Rasio a figura intera, e collocate in un paesaggio lacustre. E’ una pittura che gioca con l’equivoco burlesco e capriccioso, come se fossimo di fronte a un’anticipata rappresentazione del mondo astruso di Alice nel paese delle meraviglie: le pose sono rigide e impacciate, quasi goffe, innaturali, anche se si intuisce lo sforzo di rendere in modo minuzioso e realistico i dettagli, in ossequio alla tradizione fiamminga.
Logicamente gli ortaggi e i fiori che, assemblati, danno volto e corpo alle stagioni, variano a seconda dei soggetti: ciliegie, fragoline di bosco, rose, papaveri, asparagi e carciofi definiscono la figura della Primavera; pesche, angurie, prugne e spighe di grano quella dell’Estate; uva, mele e pere compongono l’Autunno e infine verza, cipolle, cavoli e aglio l’Inverno. Al di là della qualità delle opere e delle osservazioni di carattere meramente tecnico, è opportuno soffermarsi sul significato di quest’arte, passata inosservata per lungo tempo e rivalutata all’epoca del Surrealismo, in virtù del suo carattere immaginario e stravagante: la metafora desublimante e naturale dell’Arcimboldo è analoga e inversa a quella alta e nobilitante di altri manieristi, come il Bronzino.
Per chiarire il concetto si può pensare al rapporto che intercorre tra la poesia bembesca, sboccata e popolare (Arcimboldo), e quella petrarchesca, raffinata ed elegante (Bronzino): si tratta di forme espressive differenti, contraddistinte da registri linguistici diversi se non opposti, al centro delle quali c’è un unico soggetto, l’uomo
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