Tutto parte da una nuova concezione della natura. E’ la filosofia, con i suoi sotterranei filamenti, a far emergere il paesaggio come cifra della modernità. Ma che accade esattamente tra Settecento e Ottocento a livello di pensiero e, successivamente, sotto il profilo delle scelte iconografiche che, di fatto, ne risultano l’evidente frutto? Perché il paesaggio, considerato un genere minore o un fondale scenografico evolve, dirompe, s’affranca dal ruolo di vilipeso sotto-genere per imporsi come protagonista del dipinto?
Quella che si realizza nell’Ottocento è, in effetti, una grande rivoluzione concettuale e iconica. Le figure prima arretrano, poi diventano minuscole, quindi scompaiono. Cielo, terra, alberi, fiumi, mari erompono sulle tele. E sovrana emerge la natura. Il nuovo pensiero – tra le durezze materialiste dell’Illuminismo e la ribellione titanica dell’uomo romantico, che cerca di trovare uno spiraglio di assoluto – pone la natura al centro del mondo. Non tanto l’umanità – che è minuscola, fragile parte di esso – ma l’intrico vegetale, la violenza tellurica, la durezza geologica, la flagellante potenza dei fuochi e delle acque.
Il mondo è ricco di forze oscure, incombenti, attraverso le quali parla, con il linguaggio della fisica e della chimica, il Dio sordo della filosofia illuminista, la causa prima che crea senza occuparsi successivamente del destino del creato. L’interesse nei confronti del paesaggio cresce proprio nel momento in cui l’idea di Dio, nel pensiero occidentale, viene fatta scivolare in una posizione marginalissima. Se qualcosa di oscuro e di sovrano e di terribile viene prodotto di fronte ai nostri occhi – qualcosa che potrebbe apparire come l’eco di un’emanazione metafisica -, esso risulta sempre più come la manifestazione di una natura divinizzata, sovrana e matrigna ad un tempo. Troviamo questo concetto antimetafisico nella poetica di Leopardi. Il Vesuvio sterminatore che lancia fuoco, cenere e lapilli contrapposto alla forza di un arbusto che, mosso dall’obbligo alla vita, resiste fino a quanto ciò è possibile. La Ginestra di Leopardi è quanto di più paesaggistico il poeta abbia prodotto, in linea con il nuovo pensiero filosofico e pittorico: una plaga nera e una pianta dotata della forza dirompente dell’esistenza. Leopardi si trova a scrivere ciò che i pittori della propria epoca dipingono.
Facciamo un piccolo passo indietro; nella seconda metà del Settecento viene diffuso un testo fondamentale che consente di comprendere uno dei motivi per i quali Constable e Turner, che nella mostra bresciana vengono inequivocabilmente indicati come anticipatori dell’Impressionismo, decideranno, con altri artisti dell’epoca, di virare in direzione dell’assoluto naturale, dipingendo nubi o paesaggi pulviscolari nei quali sono rappresentate le forze arcane del mondo o il mistero attraverso il quale la natura attrae e atterrisce l’uomo. Buona parte del mutato atteggiamento nei confronti del paesaggio sta in un piccolo testo dotato di una forza esplosiva: L’indagine filosofica intorno alle nostre idee di sublime, scritto da Edmund Burke nel 1756. E’ l’autentica bomba, che, facendo deflagrare diversi precedenti speculativi, sarebbe esplosa prima in Inghilterra – e non può sfuggirci il fatto che Turner e Constable fossero anglosassoni -, poi nel continente europeo, consentendo la maturazione di un nuovo atteggiamento nei confronti dell’anima tellurica e tempestosa del mondo.
Burke spiega infatti che Sublime è “tutto ciò che può destare idea di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili o che agisce in modo analogo al terrore”.
Il massimo esercizio del Sublime è svolto dalla Natura. Sicché il genere del paesaggio si configura come la forma nuova in grado di esprimere, sotto il profilo iconico, la mutata visione della vita da parte dell’Occidente. E’ per questo che la grande madre – secondo il pensiero di Jean-Jacques Rousseau, che costituisce un altro fortissimo precedente filosofico in direzione della promozione dell’elemento naturale – o la perfida matrigna vengono osservate dai pittori con il senso di ammirazione o paura. Tutto, ormai, eliminato progressivamente il piano metafisico, si svolge nel mondo. Le forze arcane – il vento, le maree, gli spaventosi dirupi che si aprono sugli abissi, il fuoco esplosivo dei vulcani, la natura effimera delle nubi, la violenza delle cascate, il verde mistero dei boschi – assumono, secondo la visione autorizzata da Burke e da Rousseau, una valenza nuova.
La natura deve essere pertanto svelata, compresa, rappresentata come una divinità nei momenti in cui – e non sono frequenti – essa palesa la propria autentica maestà. E’ quello l’istante dell’epifania, della manifestazione di un carattere fisicamente divino. La necessità di cogliere l’istante in cui il mondo rivela i propri sconvolgenti segreti presuppone un mutamento dell’atteggiamento del pittore. L’artista deve confrontarsi direttamente con il paesaggio ed esprimersi al di là delle convenzioni iconografiche.
Chateaubriand, nella Lettera sul paesaggio in pittura (1795) invita i pittori ad osservare intensamente gli alberi. I paesaggi non possono essere immaginati in studio; le foglie delle piante non debbono essere rappresentate attraverso segni stereotipi, ma devono essere conformati alla verità botanica del bosco. Questo perché anch’egli – che muove comunque da un pensiero di matrice cristiana – crede che la nuova frontiera del senso obblighi a una riconsiderazione della natura. Alla nuova divinità non si può infatti negare, come ad ogni dio, la verità della rappresentazione.
Ma dipingere all’aperto non basta. Turner e Constable assumono infatti l’atteggiamento della vigile, sciamanica attesa di una rivelazione. E’ per questo che la rapidità dell’esecuzione del dipinto – o comunque la cattura dell’istante – diverrà fondamentale per i gruppi più innovativi e aggiornati della pittura del primo Ottocento. Dipingere en plein air non significa soltanto aderire alla necessità di una rappresentazione realisticamente fedele alla verità dell’oggetto, ma catturare l’istante, attraverso il quale i sensi disvelano il Senso.
Il concetto di istante come nuovo elemento temporale. Se la pittura del passato – e l’Accademia che continuava ad essere rappresentante della tradizione – aveva colto essenzialmente il “fotogramma” del momento – un’unità temporale limitata, ma non irripetibile, un segmento entro il quale veniva scandita l’azione pittorica, come su una quinta teatrale -, la linea ottocentesca che muove, con spirito romantico, da Constable e Turner, formula pittoricamente il concetto d’istante come un punto di luce, di vento, di tempo irripetibile, da bloccare per l’eternità. Per cogliere l’istante eloquente è pertanto necessario che il pittore si ponga a diretto contatto con la natura, cogliendone le manifestazioni dell’atmosfera e della luce nelle quali appare la verità nascosta del mondo. Da qui discende la necessità di abbandonare gli atelier per confrontarsi con la realtà, utilizzando, in molti casi, piccoli supporti e comodi colori e medium, come carte ed acquerelli, che consentono una ripresa rapida dei mutamenti atmosferici. L’atteggiamento nei confronti del concetto di istante, che, soprattutto in Turner, appare in drammatico confronto con la dilatazione dell’eternità e che sottolinea la finitudine umana al cospetto dei tempi cosmici, muterà con gli impressionisti. Possiamo infatti distinguere tra l’istante dei pittori romantici, che si prospetta quasi sempre come flash di rivelazione di un arcano, di un segreto, di un nodo temibile della natura e quello sensista – sulla linea di Monet – che coglie la natura nell’attimo del quotidiano fulgore atmosferico. L’istante degli impressionisti – che viene rafforzato, in termini di linguaggio, dalla diffusione della fotografia, in grado di bloccare l’azione in un preciso, irripetibile punto sulla linea del tempo – risulta collegato alla concezione del transito inesorabile di quest’ultimo e alla caducità di un mondo che non può più offrire la consolazione dell’abbraccio finale con Dio. Al pittore impressionista spetta pertanto il ruolo di eternare il transitorio. Di osservare anche i minimi segmenti gioiosi del mondo, includendoli nel quadro di una folgorante memoria. Negli anni successivi al fenomeno impressionista, ma lungo la stessa linea d’azione, Proust confermerà questi concetti, lavorando sul recupero di istanti e di luci e di atmosfere che confluiranno nella monumentale Recherche. Anche buona parte della pittura impressionista si rivelava come una tecnica che consentiva di bloccare lo stupore dell’istante, contrassegnato da una data luce e da una precisa valenza atmosferica, opponendosi, in questo modo, allo smarrimento del tempo gioioso. Gli impressionisti aprirono in questo modo un’altra porta: quella sacralizzazione del tempo, che non è più perduto, ma recuperato attraverso l’artifizio di una pittura istantanea.
I precedenti: le nubi di Constable e i sublimi pulviscoli di Turner. Constable (1776-1837), del quale la mostra bresciana offre circa 20 opere, ha lavorato a stretto contatto con la natura, esercitandosi, in rapidità, a cogliere eloquenti istanti atmosferici, tra i quali ricordiamo gli Studi di nuvole. Le nubi, infatti, sembrano aderire ad un piano di espressione simbolica del cielo che, a giudizio del pittore inglese, è “l’organo principale del sentimento”. “Gli studi del cielo – scrivono i curatori della mostra – sono anche una magnifica testimonianza della meravigliosa gamma della sua tavolozza e dell’abilità nell’applicazione del metodo che gli consentiva di prendere ‘appunti’ all’aperto, catturando così i vari aspetti della natura e le mutazioni delle luce”. La parte emozionale – legata alla proiezione del sentimento – conferma la matrice intensamente romantica dell’autore, che non rinuncia comunque, contemporaneamente, a un’osservazione scientifico-sistematica dei nembi, giacché l’artista prendeva nota della data, della direzione del vento e delle condizioni atmosferiche nelle quali aveva strappato una verità alla natura. Joseph Mallord William Turner (1775-1851) è rappresentato in mostra da 35 tra oli ed acquerelli. L’importanza di Turner, la cui opera fu analizzata da Monet con grande attenzione in occasione del suo viaggio a Londra nel 1870-1871, periodo nel quale il pittore francese lavorava in direzione della svolta impressionista, è rappresentata principalmente dalla capacità di registrare, con grande attenzione, il dato atmosferico, che mantiene pur sempre un carattere sublime, dotato d’alta eloquenza. Il disegno, di fatto scompare. E’ la luce, attraverso il colore, a segnare le forme evocate nel dipinto. L’arcano della natura continua a parlare, sulla linea del Romanticismo, attraverso la sua pittura. Dopo aver studiato le opere di Lorrain e di Poussin, autori che si muovevano nel classico paesaggio con figure, ed aver affinato la tecnica con la copia di celebri acquerelli, Turner esplora pittoricamente le regioni montuose del Galles, l’Inghilterra settentrionale, la Francia, la Svizzera e l’Italia. L’acquerello si rivela peraltro facilmente fruibile per documentare le atmosfere nella dimensione del viaggio, che richiedeva al pittore, considerate anche la scomodità dei mezzi di trasporto e la mancanza dei tubetti dei colori ad olio – che sarebbero stati ideati successivamente – un facilitato accesso alla “ripresa” paesaggistica. In Turner, che spesso conferisce ai suoi quadri una dimensione mitico-narrativa, assistiamo a una fusione tra realtà e poesia, tra realtà e immaginazione. Le parti pittoriche finite colloquiano strettamente con quelle infinite, che hanno la funzione di motori in grado di potenziare la forza evocatrice del dipinto. “Sono infatti moltissime – annotano i curatori – le opere che, a rigor di canone, vanno registrate come ‘non finite’ (gli studi di nuvole, i cieli tempestosi e le turbolente marine), ma esse costituiscono degli autentici capolavori che anticipano tanta parte della pittura che verrà”.
Si esce dagli atelier, si sconfessano le accademie: il primo en plein air. E’ noto il fatto che gli artisti dell’Accademia – i quali esponevano negli annuali Salon parigini nella prima metà del XIX secolo – offrivano della natura un’immagine stereotipa che fungeva quasi esclusivamente da fondale scenografico del dipinto, sul quale transitavano personaggi del Mito o delle Sacre Scritture o si stagliavano rovine greche e romane. “E’ però anche vero che artisti come Lapito, De Valenciennes e Granet, tra gli altri, in questo periodo, grazie anche ai loro prolungati soggiorni di studio in Italia (forte polo d’attrazione per il confronto con il mondo classico, ndr) – sostengono i curatori dell’evento espositivo – cominciano un’osservazione diretta della natura che aprirà la strada alla pittura en plein air, la quale toccherà i suoi vertici soprattutto con Corot. Questa sezione inizia con colui che è stato un vero e proprio teorizzatore del paesaggio storico, Pierre-Henri De Valenciennes (1750-1819). Dimenticato per diversi anni dopo la sua morte, egli eserciterà tuttavia una notevole influenza sulle generazioni successive, soprattutto per quel che riguarda l’arte del paesaggio che, da genere minore com’era durante il XVIII secolo, diventerà, dalla metà del secolo seguente, il luogo di esperienze estetiche radicali”. Ma sarà Corot a portare a maturità il primo periodo della pittura en plein air. Fortemente formativo, in questa direzione, sarà il primo soggiorno in Italia, dal 1825 al 1828. Qui scopre la limpida atmosfera e i colori splendenti della campagna romana, immortalata in una ricca serie di schizzi a olio che costituiscono uno dei momenti più alti della sua produzione, proprio per la loro spontaneità e freschezza. Ma i tempi non sono ancora del tutto maturi per quel passaggio fondamentale che sarà compiuto, in diversi casi, dagli impressionisti: la trasformazione di quei dipinti presi dal vivo in opere definitive. Corot infatti utilizza le impressioni di viaggio come base per composizioni più elaborate che egli esegue poi nel suo studio. Il plein air, dunque, che egli continua a sperimentare nei pressi della foresta di Fontainebleau, è solo un mezzo per studiare nuovi orizzonti e inediti effetti di luce. Quello di Corot è un continuo riandare alla tradizione (Poussin e Lorrain su tutti), ma con un sentimento e delle convinzioni attinenti al paesaggio che risultano personalissime. “Ciò – sostengono i curatori – consente di individuare innegabilmente in Corot il nesso tra il periodo romantico e l’Impressionismo”.
Non più l’Italia. Da Barbizon al primo paesaggio impressionista. Il nuovo valore attribuito alla natura dalla cultura ottocentesca comporta una progressiva diminuzione dell’attrazione di Roma e dell’Italia – come luoghi di rovine eloquenti – e la rottura con i residui del neoclassicismo. L’osservazione dell’elemento naturale può infatti avvenire anche nei luoghi suggestivi della Francia. Il Gran tour perde significato. E’ a questo punto che si verifica una delle virate fondamentali legate ai luoghi della pittura. Roma perde centralità e cresce il richiamo della Francia che diverrà il nuovo polo artistico mondiale, primato che la capitale francese conserverà fino al Novecento inoltrato, dopo la seconda guerra mondiale, quando la leadership le verrà strappata da New York e dagli Stati Uniti. Sono proprio i pittori di Barbizon, i cui esordi sono da ricondurre ai primissimi anni Trenta dell’Ottocento, ad essere gli artefici di una rottura che segna la fine dell’ascendente teorico ed estetico del paesaggio classico. Nel 1831, il critico della rivista L’artiste riassume mirabilmente la situazione contemporanea: “Una rivoluzione si è operata nella pittura di paesaggio come nelle altre branche dell’arte. I paesaggi convenzionali, i rispettabili paesaggi ben spazzati, ben spolverati, senza rovi né spine, a linee ben tracciate, compassate, cadenzate, sono quasi scomparsi dal Salon. Oggi il paesaggista si cimenta nel rendere la natura così come essa è, e ogni opera invece di essere gettata nello stampo sempre analogo, segnato dalla contraffazione del sigillo di Poussin, porta l’impronta individuale del talento del pittore; in una parola, ogni opera in generale è un filone più o meno ben sfruttato dell’aspetto tanto ricco della natura vera”. Dunque per gli artisti che iniziano a dipingere in questi luoghi, intorno agli anni Trenta, la natura non è più quella di un’Italia pittoresca e idealizzata, ma quella di una Francia scoperta gradualmente. Si inizia con l’esplorazione delle foreste attorno a Parigi, come Compiègne, Montmorency e Louveciennes.
Ma il luogo che, più di altri, rinvigorì il paesaggio contemporaneo francese tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, fu la foresta di Fontainebleau con le sue frazioni, Barbizon, Marlotte e Chailly. Fin dall’inizio degli anni venti Corot vi realizzò degli studi, poi Huet e Français furono tra i primi residenti della locanda Ganne a Barbizon, fondata nel 1824, divenuta da allora il cenacolo degli artisti che qui elaboravano un nuovo linguaggio. Ogni autore è libero di sviluppare una propria ricerca e, almeno apparentemente, non vi sono regole rigide alle quali conformarsi. Nella foresta di Fontainebleau la soggettività del pittore – anche questo un fondamentale elemento di novità nella definizione del paesaggio moderno – viene rivendicata e assunta come necessaria a ogni creazione. La natura dev’essere non più costruita, ma studiata in ogni suo aspetto, in ogni momento della giornata, nelle diverse stagioni. È per questo che acquista sempre più importanza il plein air e lo studio eseguito in situ. Sono queste le premesse fondamentali per l’elaborazione del linguaggio impressionista, anche se ancora gli artisti della Scuola di Barbizon considerano fondamentale il lavoro di studio all’interno dell’atelier. Corot in questo senso dichiarerà: “Dopo le mie escursioni, invito la Natura a trascorrere qualche giorno da me”; e Rousseau, per i quadri che doveva inviare al Salon, non lavorava en plein air. Daubigny, più di ogni altro, grazie anche alle esplorazioni fatte con il suo battello, il Botin, dipinse direttamente sul motivo. È lui, con la sua maniera più fluida e con la tavolozza schiarita dell’inizio degli anni Sessanta, a costituire una continuità tra la Scuola di Barbizon, Courbet, e la giovane generazione impressionista. Infatti anche Courbet, il padre del realismo, all’inizio degli anni Cinquanta lavorò nella foresta di Fontainebleau, e in altre regioni, accanto agli artisti del gruppo di Barbizon.
Ma è in particolare dopo il 1855 che per Courbet il paesaggio diventa sempre più importante, ed è la materia stessa della sua pittura che cambia: si fa più densa e contrastata, quasi a voler tradurre sulla tela l’energia vitale della natura stessa. E’ grazie anche alla sua opera che, in poco più di trent’anni, il genere ritenuto minore del paesaggio diventa la punta di diamante della modernità pittorica. I suoi studi di rocce vengono per esempio presi a modello da Cézanne in alcune composizioni dei primi anni Sessanta, così come la potenza delle marine dipinte dal maestro di Ornans costituisce un riferimento per il giovane Monet. Sarà proprio quest’ultimo a segnare la più stretta continuità tra la Scuola di Barbizon e il primo paesaggio impressionista, fin dalle opere che dipinge a Fontainebleau tra il 1865 e il 1866. Qui però egli già formula un nuovo linguaggio, lontano da una visione lirica della natura e da certe suggestioni panteiste quali per esempio potevano essere ravvisate nell’opera di Troyon. L’interesse del padre dell’Impressionismo nei confronti della natura è, fin d’ora, più obiettivo e totalmente dedicato alla luce. Così è anche per Sisley, che insieme all’amico, quando i loro paesaggi si fanno più aperti, riprende la lezione di Boudin nel dare rilievo al cielo come dominante tonale. Barbizon infatti ha insegnato a questi giovani artisti anche un altro aspetto fondamentale, quello del lavoro l’uno accanto all’altro, dello studio comune sullo stesso soggetto. È così ad esempio che, nel 1864, Monet invita Bazille in Normandia, e a partire da quest’anno le loro opere sono estremamente vicine da un punto di vista stilistico. Anche Pissarro subisce l’influenza della Scuola di Barbizon e in particolare, agli esordi, è affascinato dall’opera di Corot. Sulle sue tele però, già dalla metà degli anni sessanta, si sente declinato il linguaggio che era allora comune a molti giovani impressionisti, ovvero uno studio insistito del dato atmosferico e delle variazioni luminose. Ma in questi primi anni Sessanta è Manet a essere più di tutti ammirato come l’artista che ha coraggiosamente aperto una nuova strada in pittura. È lui a contribuire in maniera determinante alla definizione del primo paesaggio impressionista. I suoi consigli, e le sue opere, sono letti dai giovani artisti come vere e proprie indicazioni programmatiche. Osservando molte opere presenti in questa sezione si potrà dunque sentire l’eco di una celebre frase di Manet: “Non si fa un paesaggio, una marina, si fa l’impressione di un’ora della giornata in un paesaggio, in una marina, su una figura”.
Paesaggi dell’Impressionismo. In quasi quarant’anni di pittura, non solo matura e giunge a compimento il linguaggio impressionista più universalmente noto. L’Impressionismo non nasce con un manifesto programmatico stilato in un momento preciso da un maître à penser. E la prima esposizione, presso lo studio fotografico di Nadar nell’aprile del 1874, è solo il battesimo ufficiale di un movimento, i cui protagonisti in realtà si frequentavano già da diversi anni, stimolandosi a vicenda nella ricerca di un linguaggio diverso da quello proposto nei Salon, di un modo nuovo di guardare alla realtà e di farne esperienza. Questa sezione della mostra vuole dunque restituire il senso di tale confronto continuo che ha animato le esistenze degli impressionisti, del loro cimentarsi molto spesso su soggetti simili, nello stesso tempo o a distanza di anni, in perfetta solitudine o l’uno a fianco dell’altro. E sarà dunque anche inevitabile, e affascinante, verificare quanto l’apporto di un pittore sia leggibile nell’opera di un altro. Quanto cioè l’Impressionismo sia sostanzialmente un riandare continuo, ciascuno con la propria sensibilità, alla natura, tutta, che ci circonda, per coglierne fin dove sia possibile la fuggevole bellezza. Partendo da questa premessa, è dunque inevitabile raccontare per analogie di tema, più che secondo un mero sviluppo cronologico, l’attenzione al paesaggio da parte degli impressionisti. Inevitabile perché, come su tutti insegna Monet, non c’è soggetto che per definizione possa dirsi mai esaurito nelle sue possibilità di interpretazione. Il paesaggio cambia non solo per il trascorrere del tempo o per il mutare della luce, ma anche perché sempre diverso è l’occhio di chi lo guarda. Non esiste più una realtà unica, un solo modo di dipingere l’acqua, un catalogo ragionato di schemi compositivi entro i quali far rientrare la propria visione. Tutto è aperto e non c’è linea di contorno che valga a definire, a contenere gli elementi di un quadro. La natura va nuovamente, o forse per la prima volta, “studiata”. È per questo che molto spesso il “non finito” ha lo stesso valore del quadro “finito”: perché lo studio è non più, o non solo, momento intermedio di analisi, ma già comprensione piena della realtà per quello che in un dato momento essa ha potuto rivelare. Si potrebbe dire che gli impressionisti nascano veramente dall’acqua, sia perché è sui bordi della Senna, ad Argenteuil in particolare, che essi si ritrovano per ragioni di vita e di lavoro, sia perché fin dall’inizio rivolgono la loro osservazione a questo elemento che, per sua stessa natura, restituisce sempre un’immagine diversa della realtà. Ma la vita del fiume è per Monet tutta contenuta anche nel vibrare continuo dell’immagine riflessa, sfrangiata dalla luce, dei Pioppi lungo l’Epte che dipinge nel 1891. A questo soggetto viene dedicata una “serie” di quadri, così come accadrà nel 1893, e poi ancora nel 1894, con la Cattedrale di Rouen, che segna uno dei momenti più alti dell’intero corpus del maestro.
L’obiettivo è quello di osservare, nel mutamento dell’istante luminoso, i mutamenti, spesso notevolissimi, che l’edificio subisce a causa della luce. Alcuni impressionisti – Monet solo parzialmente – si misurarono con i soggetti della metropoli. Nella Parigi frenetica di fine secolo gli istanti contemporanei che si intrecciano e che si estinguono sono infiniti. Chi ritrae la vita moderna parigina, almeno fino al suo trasferimento nel 1882 a Le Petit-Genevilliers, è Caillebotte, un artista cui la nascita dell’Impressionismo deve moltissimo sia per il suo ruolo di organizzatore delle mostre che di sostenitore, anche finanziario, di molti dei suoi protagonisti. C’è anche chi, in modo minoritario rispetto al grande gruppo impressionista – e la mostra lo documenta -, cerca di mettere la freschezza istantanea della nuova pittura al servizio della denuncia sociale. E’ il caso di Armand Guillaumin che, fin dalle prime prove, rivela il suo temperamento anarchico nel ritrarre della periferia parigina orizzonti desolati piuttosto che le scene ridenti dipinte da Monet e Renoir negli stessi anni. D’altronde, per l’Impressionismo non c’è soggetto che non meriti attenzione. Dunque, anche la vita di un porto o le banchine animate di un fiume. Ma c’è chi, come Van Gogh, dall’Impressionismo maturo partirà per rigenerare la propria pittura e per approdare a nuovi, personalissimi registri espressivi. I dipinti francesi avevano infatti indicato a Van Gogh una gamma di colori assolutamente nuova e lui vi aveva scoperto tutta la forza del loro valore espressivo. Gauguin muove i suoi primi passi all’interno di una “pittura di tocco” di matrice impressionista, ma ben presto ambisce ad individuare un messaggio simbolico e spirituale nella realtà osservata e compie la virata simbolista. Tornerà alla linea chiusa, lascerà la poetica dell’istante, rifiuterà di dipingere en plein air, lasciando che la mente sedimenti il ricordo del paesaggio, trascinandolo dall’attimo a una dimensione aperta all’eterno. Il paesaggio in Cézanne diventa pretesto per una riflessione profonda sul tema dello spazio, sulla costruzione dei diversi piani che lo compongono. Non c’è la ricerca di un particolare effetto, ma una costante riflessione sulla “profondità”.
Giardino, prodigio della quotidianità. La ricerca degli impressionisti si rivolge molto spesso a realtà facilmente attingibili. Non è più soltanto il paesaggio ampio ad attrarre la loro attenzione, ma in alcuni casi è la luce che freme nella brevità del giardino di casa. E sono ugualmente capolavori tra i più alti. Stiamo parlando per esempio di Un angolo del giardino a Rueil dipinto da Manet nel 1882, qualche mese prima della sua morte. A Rueil, poco distante da Parigi, Manet aveva affittato per l’estate una casa dove ancora, nonostante la malattia, esegue “qualche studio en plein air”. La necessità che Manet conserva fino all’ultimo di dipingere en plein air è uno dei tratti comuni che lo legano ancora all’esperienza impressionista. Qui però la dimensione di dialogo intimo che egli rende avvertibile nella sua opera è un’assoluta novità. Quando infatti gli impressionisti dipingevano un giardino era per ambientarvi una scena di famiglia o per esaltare la propria abilità nel rendere i giochi di chiaroscuro che la luce creava con la vegetazione. È quello che accade per esempio negli Oleandri celeberrimi realizzati da Bazille nel 1867 o quanto si può vedere nel Parco a Yerres dipinto da Caillebotte dieci anni dopo. Entrambi gli artisti hanno qui voluto celebrare lo sfarzo di colori che fioriscono in ogni dove, calibrando sapientemente le zone d’ombra con le parti illuminate dal sole. A una visione più aperta e meno scintillante di riverberi luminosi, si rifà Pissarro, che a distanza di vent’anni l’una dall’altra dipinge due opere, gli Orti a L’Hermitage, Pontoise del 1874 e gli Alberi in fiore. La casa dell’artista a Éragny, in cui lo spazio del giardino è riletto come luogo di vita, dove l’uomo appare con le fatiche del lavoro quotidiano. Per molti artisti il giardino continuerà a esser letto come il luogo della fioritura, della vita felice che nasce. Questo tipo di soggetto non poteva che affascinare Van Gogh al suo arrivo a Arles, nella primavera del 1888. Il Frutteto stretto dai cipressi è infatti il tentativo felicemente riuscito di fermare sulla tela la bellezza effimera e gioiosa che la natura stava regalando ai suoi occhi. Il tema del giardino è però forse quello che per eccellenza va ricondotto all’opera di Monet e al tempo ultimo della sua vita a Giverny. La mostra infatti si conclude, lontanissima da dove era partita, già ben dentro il XX secolo. Eppure, d’altro canto, vicina a certi quadri di Turner che, ancor prima della metà del secolo precedente, erano già dispersione dentro la tempesta del colore. Fosse essa di luce o neve.
Le caratteristiche dell’Impressionismo sulla linea gioiosa di Monet
Il colorismo – cioè la stesura diretta del colore, senza la guida del disegno – è elemento fondamentale per il pittore impressionista. In alcuni casi la tela viene preparata con la campitura di un colore di fondo – poniamo un verde scuro, nel caso in cui il quadro voglia rappresentare il bosco -. L’olio viene lasciato asciugare. La tela è pronta per il soggetto da catturare en plein air. Il pittore, di fronte al soggetto naturale, pone sulla tavolozza i colori. Osserva gli elementi naturali, si sintonizza perfettamente sulle vibrazioni cromatiche che ha davanti a sé e inizia il lavoro, impastando i colori stessi, in molti casi sulla tela. Egli non liscia la stesura e non usa piccoli pennelli, ma tende a praticare una pittura di tocco o di filamento, che dà il senso della vibrazione luminosa della realtà. Generalmente le tinte più chiare vengono stese per ultime, attraverso piccoli tocchi. Il quadro viene poi lasciato riposare almeno un giorno. Le tonalità, infatti, con l’asciugatura, si abbassano leggermente, il quadro perde brillantezza. E’ necessaria almeno una seconda seduta per il cosiddetto potenziamento del lume. Il lavoro di completamento delle gamme chiare si svolge, nell’ambito della rappresentazione, sulle parti che, nel paesaggio, appaiono più irrorate dal sole. Osservando Monet risulta molto evidente questa procedura. I rettangoli di bianco-verde o bianco-giallo appartengono all’ultimo strato, quello più superficiale.
L’Impressionismo costituisce, di fatto, una delle espressioni più avanzate della moderna società francese, che risulta proiettata, gioiosamente, verso la Belle époque. Le industrie e i commerci sono floridi, la ricchezza cresce. Il vecchio mondo sembra essere sottoposto a una progressiva cancellazione. La gioia si manifesta nella contemplazione della natura vibratile della luce, in una sorta di “carpe diem” che appartiene alla nuova società secolarizzata, la quale manifesta la convinzione che l’Essere svolga il proprio ruolo “qui ed ora”. Con la crisi dell’Impressionismo – ritenuto un’arte di superficie – si apre il capitolo novecentesco dell’introspezione: la pittura diventerà interrogativa e percorsa da inquietanti domande sulla natura e l’identità dell’uomo.
Il raggio meraviglioso dell'istante. Perchè la pittura dell'Ottocento è "attimo fuggitivo"
L’istante degli impressionisti - che viene rafforzato, in termini di linguaggio, dalla diffusione della fotografia, in grado di bloccare l’azione in un preciso, irripetibile punto sulla linea del tempo - risulta collegato alla concezione del transito inesorabile di quest’ultimo e alla caducità di un mondo che non può più offrire la consolazione dell’abbraccio finale con Dio. Al pittore impressionista spetta pertanto il ruolo di eternare il transitorio. Di osservare anche i minimi segmenti gioiosi del mondo, includendoli nel quadro di una folgorante memoria