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di Vera Bugatti
L’uso di riprodurre un oggetto attraverso la sua forma in negativo è noto fin dall’antichità, ma nella letteratura artistica non esistono trattati sistematici che illustrino i procedimenti adottati per l’esecuzione dei calchi, forse anche perché tale pratica operativa rientrava nella normale prassi della bottega di uno scultore. I trattati più noti concordano però nell’affermare che, in presenza di un’opera di grandi dimensioni e dal modellato complesso, la tecnica “della forma buona” garantisce rispetto il modello originale e la possibilità di trarne un gran numero di repliche. Negli ultimi anni di studio, l’affinità tra diversi manufatti lignei friulani del XV secolo, ha fatto ipotizzare che alcuni di questi possano essere ricondotti allo stesso modello, probabilmente il Crocifisso della Chiesa del Cristo a Pordenone, attribuito a Johannes Teutonichus. Tiziana Pauletto ha individuato un denominatore comune per i crocifissi pordenonesi nella Chiesa di San Giorgio e del Duomo di San Marco, ritenuti di uno stesso autore dell’Italia centrale, che li avrebbe eseguiti tramite una tecnica seriale. Ricognizioni dirette e indagini scientifiche preliminari ai restauri – radiografia integrale, esplorazione endoscopica a fibre ottiche, carotaggi e stratigrafie – confermano che entrambi i crocifissi, omogenei dal punto di vista stilistico ed esecutivo, sono stati ottenuti per formatura, utilizzando il negativo ricavato dal crocifisso presupposto come modello.
Secondo Elisabetta Francescutti (In hoc signo – Il tesoro delle croci, edito da Skira) il materiale costituente, erroneamente indicato come carta pesta, sarebbe una miscela di gesso da presa e colla, più resistente e lavorabile. Entrambi i manufatti sono notevolmente complessi dal punto di vista costruttivo, essendo stati realizzati con materiali compositi, diversi per caratteristiche fisiche e meccaniche, anche se perfettamente compatibili. La struttura era composta da strati sovrapposti di gesso e colla, armati da teli di lino (con funzione di irrigidimento), mentre lo strato più esterno, veniva preparato con un’ammanitura e quindi policromato.
Per realizzare queste copie fu preso il calco dell’originale e vennero realizzate due valve, costituite da un numero variabile di tasselli e giuntate in corrispondenza della linea mediana sagittale. Nel procedimento i tasselli composti da gesso da presa e colla, rivelano ognuno una porzione della superficie del modello, preventivamente ricoperta di una sottile stesura di sostanze isolanti. Lungo i lati e sulla faccia esterna dei tasselli erano praticate delle incisioni, dette “chiamate”, per favorire l’assemblaggio. Sui tasselli induriti veniva poi applicato uno strato di gesso da presa, la madreforma, su cui restavano impresse le chiamate incise, che servivano da riferimento per la precisa ricollocazione all’interno della madreforma stessa. Unendo tra loro le varie madreforme tramite un’operazione di cucitura, spesso effettuata con un cordino di canapa o di lino, si otteneva il rilievo in negativo del modello.
Lo stampo veniva poi riempito di una miscela di gesso da presa e colla. Si attendeva che il materiale asciugasse e si procedeva all’estrazione. Le sbavature venivano limate e poi ricoperte con il gesso di Bologna, preparando il manufatto alla policromia finale. A questo punto le opere erano quasi del tutto assimilabili al modello. Si considerino i vantaggi della replica seriale per formatura: innanzitutto i tempi erano molto ristretti se paragonati a quelli necessari per realizzare un analogo manufatto in legno; inoltre il risultato era fedele al modello; infine, qualità non trascurabile, i pezzi erano stabili, esenti da fenditure, e indifferenti agli attacchi xilofagi.