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di Enrico Giustacchini
[“U]ne tête léonine, avec un collier de barbe, un grand front droit, un corps trapu, un homme tout énergie, tel il apparaissait, avec un regard direct, impérieux mais cette figure s’éclairait vite d’un sourire… Il était tout en extrêmes. C’était un fauve mais un fauve généreux”. Così Manguin, nel ritratto-testimonianza di Charles Terrasse. Manguin il leone, Manguin il fauve – la belva – si abbandonava volentieri alla luce del sorriso. Nella vita, nell’arte. Henri Charles Manguin nasce a Parigi nel 1874. La sua famiglia, una famiglia agiata, gli consente di dedicarsi alla pittura fin dalla giovane età. A vent’anni è allievo di Gustave Moreau, avendo per compagni Matisse, Marquet, Rouault, Puy, De Mathan. E’ il nucleo di quella che sarà, di lì a poco, la rivoluzione fauve. Manguin può disporre di un proprio studio, e qui egli accoglie spesso la combriccola di artisti, pervasi come lui dall’ansia di elaborazione di un nuovo, elettrizzante linguaggio. Tra le pareti dell’atelier al 61 di rue Boursault si va costruendo l’incendiaria poetica di uno tra i principali movimenti dell’avanguardia del Novecento. Nell’ottobre del 1904, il Nostro, che da qualche tempo non fa che ricevere da Matisse e Marquet lettere magnificanti il paesaggio di Saint-Tropez, si mette in viaggio verso la Francia meridionale. A Saint-Tropez incontra Paul Signac: l’opera del maestro lo riempie di ammirazione, ma a differenza dei suoi amici egli non si lascia tentare dall’esperienza del Pointillisme. E’ il Mediterraneo invece a conquistarlo: da allora, luci, scorci ed atmosfere del Sud gli rimarranno nel cuore e continueranno, sino alla fine, a fornire i soggetti di molte delle sue tele. Quando, l’anno successivo, si verifica uno degli avvenimenti-chiave della storia dell’arte del secolo scorso, Henri vi partecipa da protagonista.
Stiamo parlando, è inteso, del Salon d’Automne che vede la nascita ufficiale del Fauvisme. La vicenda è ben nota, con il critico Louis Vauxcelles che, sconvolto dai colori puri e sfolgoranti utilizzati dal gruppo di pittori riuniti in una delle sale dell’esposizione, definisce gli stessi “fauve”, belve. Ebbene, in quella sala, in quella cage aux fauves, accanto ai dipinti di Matisse, Derain, Vlaminck, Camoin, Marquet, vi sono cinque tele di Manguin: La Sieste, Sur le balcon, Sous les arbres, Chêne liège, Le Pré. A proposito de La Sieste, lo stesso Vauxcelles riferirà con sarcasmo sul Gil Blas di “questa donna mezza nuda che sonnecchia su un canapè di giunco”. Il resto della critica, con rare eccezioni, è se possibile ancor più severo con Manguin & C. Ai sei vengono affibbiati epiteti quali “pazzi” e “selvaggi”. Per Marcel Nicolle i loro quadri altro non sono se non “giochi barbari e primitivi d’un bambino che si esercita con la scatola dei colori”. Altri la buttano in politica: dietro questi pseudoartisti – sentenziano – si nascondono in realtà dei ciarlatani anarchici e aggressivi, che sputano sulla tela il veleno dell’odio verso la borghesia. E se si trattasse invece – insinua La liberté – di un’enorme mistificazione, di una farsa gigantesca? Aggredito da tanto frastuono, il leone Manguin che fa? Ruggisce o sorride? Buona la seconda. E non solo perché le tonnellate di scherno rovesciate su di lui e sui cinque compagni d’avventura si rivelano presto e inopinatamente uno straordinario veicolo di celebrità (il termine “fauve” da dispregiativo si trasforma in un marchio di successo, il movimento valica in un attimo la frontiera francese per affermarsi con forza inarrestabile a livello europeo). Il fatto è che Manguin crede nella pittura, ed in particolare nella propria. Crede nella pittura come vita, nella perfetta coincidenza dell’una con l’altra. Non disdegna la fama, ma è facile credere che – se pure i Fauve fossero stati travolti dagli insulti, spazzati via dal ridicolo e affidati all’oblio – egli avrebbe continuato a dipingere esattamente come prima, con la stessa joie de vivre che aveva sedotto Matisse, ma se possibile con intensità ancora maggiore dell’amico, e certo con minori dubbi, anzi con fede granitica. Come scrive Gaston Diehl in uno dei (rari, in verità) saggi dedicati al Nostro, purtroppo inedito in Italia, parlando delle opere di quegli anni, Manguin “cede all’attrazione che esercitano su di lui gli sfondi colorati, alle iridescenze delle stoffe, senza tuttavia abbandonare il rigore dei contorni delle figure”. E’ il caso, ad esempio, di un capolavoro quale Les Gravures, dove la tinta madreperlacea della carne della donna nuda si alterna in originale contrasto, senza confondersi, con l’austera moderazione tonale dell’abito della donna vestita e dei tessuti policromi che riempiono la scena e circondano le due protagoniste. Una naturale tendenza al riordino dei “materiali”, che funge quasi – mi sentirei di dire – da blando, forse inconsapevole antidoto al rischio del dérapage verso il delirio di una felicità senza freni né confini. Henri avverte ogni tanto il richiamo paterno di Cézanne, che egli aveva potuto incontrare di persona e che non mancherà mai di influenzare la sua produzione, soprattutto agli inizi (si pensi a quadri quali la Grande Nature Morte del 1900, o l’autoritratto del 1905, nel quale i riferimenti al celebre Autoritratto con cappello cézanniano, oggi al Kunstmuseum di Berna, sono così palesi da far sì che l’opera vada legittimamente letta come un omaggio devoto al maestro), ma, a ondate, anche in seguito. Così corazzato, Manguin potrà allora affidarsi senza timori all’ebrietà delle immersioni nei prediletti paesaggi mediterranei, nella vertigine dei blu profondi, dei verdi “acidi” e stridenti, dei gialli oro, dei rossi purpurei, degli arancioni arroventati. Il più fauve tra i Fauve potrà superare indenne la crisi precoce del movimento, le disillusioni dei suoi membri, il rovinio del loro ilare castello, di lì a poco, sotto la sferza dei rabidi venti di guerra che sconvolgono la Vecchia Europa, in un turbine di macerie vanicolori.
La ricetta di sopravvivenza di Henri coinciderà con la sua inossidabile adesione al dogma della perpetuità della pittura, della capacità della stessa di farsi dispensatrice di piacere. Proprio a causa di ciò egli può essere considerato, a mio giudizio, un pittore “classico”. Anche il ricorrente sforzo autodisciplinante per una riorganizzazione ed una ripartizione di forme e volumi finalizzate a più solidi equilibri, anche il riaffiorare della lezione plastica cézanniana vanno in questa direzione. Manguin intelaia e rinsalda con moderazione e saggezza le divampanti fiammate dell’architettura fauve per continuare ad essere un Fauve; e paradossalmente, ciò facendo egli si sottrae alla provvisorietà dell’avanguardia, rende la sua un’arte senza tempo, fuori dal tempo.
Significativo, se ci si riflette, è il paragone con Bonnard, autore di cui già ci siamo occupati nella nostra inchiesta (cfr. Stile 104). Non per nulla, i due erano grandi amici. Secondo Terrasse, che era nipote di Bonnard, fu proprio Manguin a convincere questi a prender casa a Le Cannet, in quello che sarebbe diventato uno dei luoghi mitici della pittura del Novecento (Henri, folgorato come si ricordava dalla vicina Saint-Tropez, vi avrebbe a sua volta acquistato la non meno mitica residenza de L’Oustalet). Al pari di Bonnard, Manguin fa della moglie, Jeanne Carette, non solo la modella preferita, non solo la musa ispiratrice, quanto piuttosto il reiterato, ossessivo soggetto di numerose opere, lungo tutto l’arco dell’esistenza, in una sorta di intimo, quotidiano diario per immagini. Al pari di Bonnard, ancora, egli finisce per autoescludersi dalla contingenza del dibattito artistico e culturale dell’epoca così da ribadire l’eternità, la sacralità persino, del gesto pittorico. Per questo, possiamo assegnare senza remore a Manguin – come abbiamo fatto per Bonnard – la patente di classicità. Nella luce fulgida di Saint-Tropez, il Nostro continua sino al termine dei propri giorni, naturalmente, a dipingere. Con gioia. Nei suoi quadri, osserva Tristan Klingsor, “persino le ombre contribuiscono alla levità e alla gaiezza”. Il “voluttuoso cantore della vita felice”, per usare la definizione che molti anni prima gli aveva riservato Apollinaire, prosegue senza soste la propria serena ricerca della felicità nella bellezza, e della bellezza della felicità. Se ne va nel settembre del 1949, lasciando sul cavalletto una natura morta, piccola, incompiuta e invariabilmente gaudiosa. “Harmonisons! Harmonisons!” sono le parole estreme pronunciate da Henri Manguin, l’ultimo sorridente ruggito, prima di chiudere gli occhi per sempre.
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