Jackson Pollock e il dripping- Come e perché dipingeva ispirandosi ai pellirosse. L'analisi, i video

Nel 1941 egli visitò più volte la mostra Indian Art and the United States, partecipando, come osservatore, alle diverse dimostrazioni pratiche compiute da da stregoni, che lavoravano con un distacco dalla realtà simile a un'esperienza di trance.I nativi americani, come avremo modo di vedere in due documentari, uno dei quali nel 1949 - e pertanto negli anni in cui Pollock già produce i propri lavori di action painting - si basa sull'uso di polveri e sabbie dai colori diversi

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Jackson Pollock durante la realizzazione di un'opera, con la tecnica del dripping
Jackson Pollock durante la realizzazione di un’opera, con la tecnica del dripping

Jackson Pollock appartiene a uno dei due dei principali orientamenti artistici del secondo Novecento americano: l’action painting – la pittura-azione – inserita nell’ambito della definizione di “espressionismo astratto”. Il secondo filone preponderante – e contrario per diversi aspetti all’action painting -sarà lo sviluppo, successivo, della Pop art.Con espressionismo astratto si intende una violenza deformante nella rappresentazione che, nel caso di Pollock,  non è figurativa, come negli espressionisti del primo Novecento – e citiamo, prima di tutti, Munch, come esempio, ricordando l’assetto deformato dell’Urlo – ma produce quadri nei quali non è riconoscibile alcuna forma di figurazione, ma una sorta di primitivo trasferimento di violenta energia psichica, che combatte, con il riempimento di tutta la tela un’altrettanta primitiva “paura del vuoto” (horror vacui). Ogni dipinto dell’artista si presenta come un “tutto pieno”. Fondamentale, nelle stesure, è l’azione svolta dall’intero corpo al cospetto della tela, che recupera un’azione attiva, completa, totalmente coinvolgente, rituale e sciamanica, differenziandosi dal pittore che, davanti al cavalletto, trasferisce, delicatamente minime quantità di colore e di realtà. Il successo dell’arte di Pollock precede e si collega sotto l’aspetto antropologico alla nascita e allo sviluppo dell’arte alternativa della Beat generation. Con questi termini lo scrittore Jack Kerouac definiva, nel 1948, una fascia alternativa del mondo giovanile, anticonformista, underground che spesso cercava un’identità nel verso l’America più discosta, culturalmente. L’aggettivo beat significava stanchi o abbattuti e si riferiva spesso alla comunità afro americana; si trattava di trasformare in rabbia, azione e nuove modalità di rappresentazione culturale un’energia latente molto intensa.
Pollock contribuì a creare, pur in un percorso autonomo, percorsi iconografici che crearono l’immagine di un’epoca connotata dalla protesta, dall’azione, dal rifiuto del consumismo, dal recupero di valori pre-borghesi.

Jackson Pollock (Cody, 28 gennaio 1912 – Long Island, 11 agosto 1956) aveva partecipato a un seminario tenuto dall’artista americano David Alfaro Siqueiros, specializzato nella produzione dei murale. In quel caso aveva notato quanto il muralismo si differenziasse dalla pittura sfumata e tonale della tradizione occidentale per puntare su una gamma limitata e violentissima di colori con l’uso preponderante dei primari. In quell’epoca, l’osservazione della violenza espressiva del colore, in grado di trasformarsi in un urlo cromatico, si unì ad un imprinting fondamentale per l’artista: il ricordo della pittura di sabbia, praticata, a livello di rappresentazione magica, da parte dei nativi americani che egli aveva visto, per la prima volta, accompagnando il padre, agrimensore, durante un sopralluogo nella regione. Nel 1941 egli visitò più volte la mostra Indian Art and the United States, partecipando, come osservatore, alle diverse dimostrazioni pratiche compiute da da stregoni, che lavoravano con un distacco dalla realtà simile a un’esperienza di trance.I nativi americani, come avremo modo di vedere in due documentari, uno dei quali nel 1949 – e pertanto negli anni in cui Pollock già produce i propri lavori di action painting – si basa sull’uso di polveri e sabbie dai colori diversi. I pittori-sciamani creavano, come base effimera, una base di sabbia appiattita e resa liscia, trascinando su di essa un’asse. A questo punto attingevano a diverse polveri, sabbie e pigmenti, racchiudendo ogni polvere in un pugno e lasciando poi scivolare, per caduta simile a quella della sabbia in una clessidra, sul preparato di sabbia chiara. Ma se il gesto può apparire simile, gli indiani d’America, componevano, per cadute opere molto ordinate, nelle quali figure antropomorfe erano collegate ad elementi geometrici.

La produzione di una pittura di sabbia, da parte di stregoni navajo, nel 1949. Il disegno, a differenza della pittura di Pollock, è molto ordinato poichè riporta ad ordine le forze del caos che ostacolano l'umanità in un percorso di serenità esistenziale
La produzione di una pittura di sabbia, da parte di stregoni navajo, nel 1949. Il disegno, a differenza della pittura di Pollock, è molto ordinato poichè riporta ad ordine le forze del caos che ostacolano l’umanità in un percorso di serenità esistenziale



Essi andavano cioè a comporre le forze del caos, costringendole all’ordine della divinità e degli spiriti, come avviene nei mandali, nei tappeti orientali o nei mosaici della tradizione occidentale. In Pollock, al contrario, il gesto diviene espressione dell’Es, ribellione, azione espressiva che infrange le regole dell’arte occidentale, in una geometria del caos che, si è detto, ha anticipato gli studi dei frattali e la non linearità delle tradizionali scienze di misurazione del mondo.
Il linguaggio iconoclasta – che rappresentava un momento di rottura delle esperienze europee – ebbe successo anche perchè fu ritenuto espressione autentica della nuova frontiera americana. A differenza dei nativi, che lasciavano sfilare, in modo controllato la polvere dalle dita o dal pugno, Pollock imprime forza al colore che fa sgocciolare su una tela – collocata in molto casi a terra per evitare la caduta e il trascinamento dei pigmenti nel caso di una collocazione verticale – lascia cadere o dirige spruzzi con pennelli o bastoncini, con movimento ondulatorio, con un’azione di accerchiamento rituale del supporto, attraverso il quale egli tende a coprire l’intera superficie, annullando gli spazi bianchi e un’unica direzionalità del dipinto. La pittura d’azione era tale poichè egli, come uno sciamano primitivo, utilizzava l’intero corpo per indirizzare il colore, restando in piedi e girando progressivamente intorno alla tela. Questa tecnica fu definita dripping, cioè sgocciolatura, anche se il dripping costituisce una sola parte del complesso incedere creativo del maestro.
“Il mio dipinto – raccontava Pollock – non scaturisce dal cavalletto. Preferisco fissare la tela non allungata sul muro duro o sul pavimento. Ho bisogno della resistenza di una superficie dura. Sul pavimento sono più a mio agio. Mi sento più vicino, più parte del dipinto, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorare dai quattro lati ed essere letteralmente “nel” dipinto. È simile ai metodi dei pittori di sabbia indiani del west. (…) Quando sono “nel” mio dipinto, non sono cosciente di ciò che sto facendo. È solo dopo una sorta di fase del “familiarizzare” che vedo ciò a cui mi dedicavo. Non ho alcuna paura di fare cambiamenti, di distruggere l’immagine, ecc., perché il dipinto ha una vita propria. Io provo a farla trapelare. È solo quando perdo il contatto con il dipinto che il risultato è un disastro. Altrimenti c’è pura armonia, un semplice dare e prendere, ed il dipinto viene fuori bene. »
NEL FILMATO DEL 1951, POLLOCK AL LAVORO, DURANTE UN INTERVENTO DI ACTION PAINTING

NEL FILMATO DEL 1949 LE AZIONI RITUALI DELLA PITTURA DI SABBIA PRATICATA DAGLI INDIANI DI AMERICA, AI QUALI POLLOCK, SEPPUR PARZIALMENTE, SI ISPIRO’

 
 
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