di Gualtiero Marchesi
[“L]a ragione è parte dell’intuizione e l’intuizione è parte della ragione”. Così Jean Arp. “Ho cercato nuove forme in una sorta di procedimento analogico con quello di crescita della natura. Ho cercato di far crescere le forme. Ho messo la mia fiducia nell’esempio di semi, stelle, nuvole, piante, animali, uomini e, alla fine, nel mio essere più intimo”. E’ ancora Arp che parla. Lo fa in un idioma che ben comprendo, che assume per me consonanze familiari. Questo genio del Novecento indaga per linee e circoli le “forme elementari” che coinvolgono la creazione stessa del mondo. Rifugge la trappola delle ristrutturazioni tecnologiche per ricercare – sempre, instancabilmente, coerentemente – il dialogo a tu per tu con un cosmo di purezza adamantina, sia che si estrinsechi per rigidità euclidee sia che si srotoli in magmatiche implosioni di materia biologica. Dico volentieri di Arp, in occasione della grande mostra che gli dedica, in questo periodo, Locarno. Ben sapendo che la mia Artfood, da Arp, non può in alcun caso prescindere. Troppe contiguità per far finta di niente. Si prenda lo straordinario capolavoro – che troviamo esposto nella città svizzera – intitolato “Configuration MAM”. La parentela è talmente forte da folgorarmi, da indurmi ad un’immediata ri-creazione in un piatto nato per l’occasione, e che è subito entrato a far parte del novero delle mie proposte. Ho dipinto la base con il pigmento d’una salsa verde, stesa in una campitura irregolare, nella consistenza corposa e indocile della maionese, nell’irrequietezza sapida di acciughe e capperi passati, nella cromia gagliarda della clorofilla di prezzemolo. Ho poi trascorso questo fluente, botanico magma con la traiettoria inequivocabile di un porro, un lungo porro tagliato a mezzo, il cui stelo contrapponesse la chiarità d’un verde primaverile e sbarazzino alla solennità del colore del fondo. Sul margine, un medaglione di tartufo nero a debordare, quasi elettrone impazzito, centrifugamente pronto a schizzar via, oltre la cortina dell’atomo; od ancora, in più limpida metafora, frutto della terra anelante alla sublimazione, fuori dall’abbraccio dell’inferno minerale, verso il cielo lungo una scala di effluvi stordenti. Nei pressi, una fetta di uovo sodo. Il bianco e l’arancione, Occhio inquietante, parabola di una latente presenza di vita animale, principio e fine di tutto. Ho inteso rappresentare, qui, il magico mondo di Jean Arp: tatuato sulla sterminata epidermide dell’universo; polverizzato in miliardi di alfabeti frammentari; in bilico fra colti rimandi ed infantili stupori, ogni volta rinnovellati dai giochi del caso, sempre uguali, sempre diversi.