di Jacqueline Ceresoli
Neocultpop, neodada, neo-oggettuale, neokitsch sono le definizioni varie per indicare la tendenza camaleontica dell’arte contemporanea, più ampia del semplice fenomeno trash che, dagli anni Ottanta, si è trasformato in un linguaggio destinato a tracciare nuove gerarchie e codici, ancora in fase di transizione segnica. Oggi il kitsch è un’esigenza trasformista, è chic, è una moda, un “non-stile” di vita, anticonformista, un gusto per l’eccesso della provocazione, finalizzata a se stessa. Nell’ “etica” della riproducibilità mediatica del banale, sono esempi emblematici il pensiero del “coatto” o la filosofia del trash e della cultura imperante della spazzatura televisiva. In questo panorama si collocano le mostre londinesi della galleria Saatchi, da cui è uscito il gruppo della “Young British Art”, una scuola di kitsch patinato, capitanata da Damien Hirst (1956), artista stramiliardario, noto per aver esposto la mucca in formalina e altre opere scioccanti. La giovane arte inglese emerge con la mostra “Sensation”, ospitata alla Royal Academy nel 1997. Tre anni dopo, il kitsch e il disgusto si elevano a stile con la mostra “Ant Noises” (il titolo è un anagramma della parola ‘Sensation”), presentata ancora alla Saatchi di Londra (chiusa nei giorni scorsi), che ha raccolto i nomi di artisti britannici tra i più rappresentativi, copiati da un codazzo di emergenti (e non) internazionali. Il kitsch è un fenomeno polivalente, complesso, inqualificabile, che si sviluppa nell’ambito dell’estetica postmoderna e citazionista degli anni Ottanta, che assurge a referente estetico negli ultimi anni del Novanta. Nel Duemila è un culto, e tra pochi anni sarà una citazione “classica”. Nel presente gli artisti che puntano sull’effetto del disgusto o sull’assemblaggio ricercato ed estetizzante degli oggetti quotidiani non si contano più. Con Duchamp, l’elogio del banale, il gusto dissacrante e ironico, da gioco si è trasformato in una regola per l’arte contemporanea; e dopo la Pop Art (Oldenburg, Warhol) ha massificato ulteriormente il linguaggio kitsch, svuotandolo del suo contenuto segnico provocatorio e originale.
Gli epigoni dei “Nouveaux rèalistes” (Arman, Cesar, Spoerri e altri) non fanno più notizia; e più che parlare di kitsch, ora è necessario parlare di “kitschismo”. Tra gli artisti degli anni ‘80-‘90, rappresentativi dell’estetica contemporanea del kitsch si ricordano, oltre a Hirst, Jeff Koos, Luigi Ontani, Maurizio Catelan, Enrica Borghi, Martin Kippenberger, Rosemarie Trockel, Johon Bock, Sarah Lucas, i fratelli Chappman, Marc Dion, Katharina Fritsch, e tanti altri cultori dell’oggetto-feticcio decontestualizzato. Esaltano l’oggetto come “impero dei sensi” gli artisti cinesi e giapponesi, che sembrano aver scoperto il loro straordinario potere di generare totem della comunicazione e di mettere a confronto due universi: il prodotto e l’arte. Vi segnaliamo Rudy Van der Velde (1948), art director e consulente libero professionista della comunicazione per case editrici e per la pubblicità, che dagli anni Ottanta assembla oggetti del quotidiano, come feticci della comunicazione, della moda, del costume, inscenando teatrini-massmediali, che combinano in una originale formula la religione ed il consumismo. I suoi assemblaggi caotici rappresentano simulacri della “nuova spiritualità” materialista, connaturata al nostro sistema capitalistico. Van der Velde sorprende per la rocambolesca volontà di ritualizzare gli oggetti, prodotti dalla realtà industriale, guarda e raccoglie reperti dell’incultura del disgusto contemporaneo che, assemblati in combinazioni ironiche, smitizzano valori e significati, simulandone altri. Van der Velde – di origine olandese – s’interessa all’universo delle cose quotidiane, alle loro logiche simboliche, agli “amuleti” contemporanei, che contengono la storia del tempo a cui appartengono. Ogni civiltà ha gli oggetti che si merita. Le paradossali combinazioni variopinte, definite “new kitsch”, si svelano attraverso le parole dell’artista: “Cerco in qualche modo di conservare cose che nascono e muoiono con una velocità supersonica. Cerco di svelare anche le testimonianze più umili del nostro tempo, fondendoli in qualcosa ‘altro’, forse un messaggio”. I suoi lavori eccedono per particolarismo oggettuale, attraverso il quale egli riformula la cultura fiamminga, l’attenzione alla realtà popolare, rivisitata con intenzione ludica nell’ambito della comunicazione mediatica contemporanea. Questi mix di oggetti rappresentano contemporanee “vanitas sul senso delle cose”, bombe semiotiche che sprigionano riflessioni sulla variazione costante del segno e le associazioni combinatorie possibili. I suoi collage di vacuità, impreziositi con lustrini e paillette, dai colori pop, inscenano una profana rappresentazione di ex-voto dell’incultura popolare, mistificano il culto dell’evento e dello spettacolo attuale. E allora ecco i suoi “circhi immaginari”, dove sacro e profano, natura e artificio, uomo e animale si fondono in una tensione orgiastica di comunicazione d’altri sensi. Appartengono alla corrente più fumettistica del kitsch i grandi cibachrome di Robert Longo, che ritraggono i pupazzi tridimensionali dei supereroi dei fumetti (Lucifera, Joker, Vampirella, Ufo Robot, eccetera). Longo di recente aveva raffigurato nelle gigantografie anche crocifissi e pistole, immortalate in primo piano con la canna rivolta verso lo spettatore. Per Longo non c’è nessuna differenza tra i paramenti sacri e le armi, sono entrambe icone, che esorcizzano le paure di un millennio (futuro, già presente) invaso dalla tecnologia e inebriato da strani culti di superpotenza dell’uomo-macchina, trasformato in distributore o jukebox della visione.