di Stefania Mattioli
[C]hi sono i 104 personaggi dall’effigie curiosa affacciati alla volta dell’Immacolata, a Rivolta d’Adda, nel Cremonese? Per mano di chi sono stati realizzati e, soprattutto, quali le ragioni iconologiche – forse suggerite dalla committenza – che si celano dietro all’insolito ciclo pittorico?
Lo studio di Mauro Bonazzoli (La chiesa dell’Immacolata. Tracce di Leonardo a Rivolta, Editore Federico Motta – Sponsor Banca dell’Adda) ci aiuta a fare luce su una vicenda assai controversa e nota per lo più agli addetti ai lavori. Una vicenda che riguarda l’intero corpus di affreschi dell’oratorio rivoltano. Si tratta di un impianto decorativo inusuale per un luogo sacro che vede l’intera volta a botte – a dire il vero suddivisa in due campate – “organizzata su una trama ortogonale di linee parallele ai due sensi della volta, ai cui incroci sono collocati tondi prospettici incorniciati e legati fra loro da un motivo a treccia”. Ogni tondo incornicia un anonimo ritratto femminile o maschile connotato dalle singolarità di posa, costume ed espressione.
A chiudere l’apparato decorativo, che rimanda ad una casa privata, quasi a ricordare la serie di “uomini illustri” dal sapore squisitamente intellettuale ed umanistico (molto in voga nel XV secolo), sono dodici episodi della vita della Vergine Maria.
Con ogni probabilità i dipinti risalgono al 1506, data riportata nel cartiglio che ne attesta la committenza: “Questa opera sia fata fare li scolari de Santa Maria”. La volta è invece frutto dei lavori di ammodernamento, apportati all’edificio fra il 1497 ed il 1499, che hanno visto la sostituzione della precedente copertura a capriate.
Data la peculiarità spiccatamente “pagana” dei ritratti, qual è la loro relazione con le storie della Vergine? Esiste forse un rimando ai soffitti lombardi del ’400 caratterizzati da quelle tavolette che, nei casi più raffinati, ritraggono, di profilo, tutti i componenti della famiglia con l’ambizione di ricostruirne la genealogia? Sotto l’aspetto meramente estetico e formale la risposta non può che essere affermativa, anche se in questo caso è storia diversa.
I mezzi busti di Rivolta sono forse Sibille e Profeti? O meglio, come suggerisce Bonazzoli, personaggi ante litteram che “in un modo o nell’altro predissero la venuta di Cristo rappresentata poi negli episodi sottostanti”?
Comunque sia, tra le righe, si legge la presenza di un progetto ambizioso e colto che, realizzato talvolta con approssimazione, allude “alla riconciliazione fra mondo antico e fede cristiana”, motivando così la presenza di condottieri, eroi ed imperatori.
La questione è però un’altra. Al di là delle disquisizioni attributive ed iconologiche, ciò che inequivocabilmente colpisce lo spettatore
– più o meno esperto – è il tentativo dell’autore di porre in evidenza i tratti fisiognomici dei personaggi, di coglierne aspetti del carattere con artifici tecnici e disegnativi per nulla scontati e banali per l’epoca e per l’ambito
– quello lodigiano – a cui il ciclo appartiene.
E’ Maria Luisa Ferrari la prima (1957) che, riferendosi agli affreschi dell’Immacolata, parla di “notevole artista lombardo” (Martino Piazza, Bernardo Zenale?) che esprime una “cultura aggiornata sui fatti nuovi e più moderni” della propria area di appartenenza. Cultura desunta con ogni probabilità dal passaggio di Leonardo e Bramante, nonché dalla presenza di Bramantino.
Nel ’97 Franco Moro attribuisce la paternità del ciclo ad Alberto Piazza, fratello di Martino, e inserisce l’opera nella tradizione figurativa di Foppa, Butinone e Zenale. E’ Mario Marubbi a sciogliere l’enigma con il ritrovamento del documento di acconto per la commissione. Due sono i pittori impegnati a Rivolta: Martino Piazza e Giovan Pietro Carioni che, il 26 ottobre del 1506, ricevono una somma di danaro per la decorazione della chiesa di Santa Maria.
L’accertamento della paternità – sebbene assai significativo per risolvere “la questione attributiva nelle sue componenti essenziali” e per imporre una distinzione di mani “che si dovrà condurre per via stilistica” – non chiarisce sino in fondo l’origine di tale arguzia espressiva nel restituire i volti dei protagonisti. Peculiarità dei ritratti – per certi aspetti, monumentali – è una sorta di “immediatezza rappresentativa del dato naturale” che nasconde un approccio che non è esagerato definire leonardesco. >Merito di Bonazzoli è quello di aver svolto un lavoro di comparazione filologica fra i ritratti di Rivolta e i disegni e gli insegnamenti del Maestro.
“E’ summo peccato nel pittore fare i visi che somigliano l’uno all’altro, e così la replicazione degli atti è vizio grande”. Questo scrive Leonardo in uno dei tanti passaggi del celebre Trattato sulla pittura, che risale al 1489. Non solo. Egli suggerisce agli allievi di portare sempre con sé un taccuino per annotare “fattezze, espressioni, atteggiamenti, età”, per cercare nuove tipologie, elaborarne e fissarne con attenzione le sottigliezze anatomiche e chiaroscurali. Se è vero che per il genio di Vinci il disegno è in primo luogo uno strumento per indagare la realtà, un mezzo per svelare il mistero di tutto ciò che ci circonda, è altresì probabile che Piazza e Carioni fossero a conoscenza di tali dettami. Non a caso Bonazzoli ritiene che i personaggi della volta siano la “trasposizione letterale di quei precetti che Leonardo infonde ai suoi allievi”; e lo sono al punto da indurre a pensare ad una frequentazione diretta di Carioni e di Piazza con il Maestro. Diversamente, risulta difficile spiegare la portata “rivoluzionaria” del loro operato.
Questi anonimi personaggi clipeati non sono altro che una “precoce testimonianza” di una modernità che vede in Leonardo il principale fautore; sono gli ormai celebri “moti dell’animo” – ciò che si sente ma non si vede – a determinare la fisionomia dei loro volti.
Diversa è l’abilità dei due artisti: l’uno, Piazza – al quale Marubbi attribuisce gran parte dei ritratti -, più aggiornato e con mano sicura, traduce gli incarnati con abilità pittorica significativa dando sfoggio a modulazioni chiaroscurali sensibili e calibrate; l’altro, Carioni, con evidenti limiti d’inventiva, adotta soluzioni più sommarie e qualitativamente meno elevate.
Osservando la volta è facile individuare, nell’espressione a metà fra lo sdegno e l’ira dell’uomo quasi calvo, con la bocca abbassata, il mento pronunciato e il naso aquilino, la similitudine con lo Studio caricaturale di vecchio, realizzato da Leonardo e conservato a Roma (Istituto Nazionale per la Grafica).
O ancora, intravedere nel personaggio dalla barba biforcuta, con i capelli lunghi e lo sguardo chino – una sorta di Cristo -, un richiamo ineluttabile al disegno conservato presso la Biblioteca Reale di Torino dove tre sono le pose studiate dal Maestro per meglio indagare gli aspetti più intimi dell’individuo.
Cosa dire poi del ritratto “alla romana” della figura ripresa di fronte che, nella piega della bocca fortemente accentuata, rimanda ad un altro studio di Testa di vecchio, sempre della Biblioteca Reale? Cosa pensare del personaggio che indossa un cappello a larga tesa il cui profilo, dalla fisionomia grottesca con forti accentuazioni caricaturali, allude agli schizzi custoditi presso l’Ambrosiana di Milano e a quelli della Collezione Reale di Windsor?
Per risolvere ogni dubbio, altri sono i rimandi leonardeschi individuati da Bonazzoli: le fasce decorative a finto stucco e gli intrecci che le contraddistinguono, a ragione, trovano un riscontro iconografico plausibile sia nel Codice Atlantico (Foglio 1066r) sia in alcuni motivi ornamentali nella volta della Sala delle Asse del Castello Sforzesco di Milano approntata, guarda caso, da Leonardo stesso.