intervista di Jacqueline Ceresoli
Stile ha incontrato Allegra Betti van der Noot nello studio milanese dell’artista.
Perchè – in quest’epoca ipertecnologica – ha scelto la pittura?
Mi piacciono anche altri media. Ma dipingere mi fa sentire davvero bene. Stupire con opere pittoriche è difficile, sembra sempre che sia stato già fatto tutto. Invece è esattamente il contrario. La pittura è un medium inesauribile, le combinazioni sono infinite.
Si racconti: quando ha iniziato a dipingere e che tecniche usa?
Dopo il liceo artistico ho scelto di studiare pittura a Brera perché mi sembrava che questo potesse offrirmi orizzonti più ampi da esplorare. Durante l’accademia lavoravo utilizzando principalmente acrilici e pastelli ad olio su tela, legno o cartone, ma mi sono cimentata pure con la fotografia e i video.
Ora preferisco l’olio su tela o su legno, tecniche miste, come la stampa su tela con interventi ad olio, e la serigrafia, partendo da disegni ad ecoline.
Suo padre è un importante compositore di musica jazz, sua madre è designer e creativo pubblicitario; entrambi sono appassionati d’arte contemporanea e velisti provetti. Quanto hanno influito sulla sua educazione l’arte e il mare?
Moltissimo. Sono cresciuta leggendo, e disegnando, i libri di Bruno Munari. Da piccola ho partecipato ad una sua mostra, in cui i bambini esponevano storie che avevano loro stessi scritto e illustrato.
Per quanto riguarda il mare, ho fatto la mia prima traversata a vela quando avevo un anno e mezzo, e continuo a navigare anche oggi, per tutto il Mediterraneo. In particolare, ho avuto la possibilità di conoscere a fondo i musei e i siti della Grecia antica e i luoghi dell’Odissea.
Il mare è una costante nella mia vita. La notte sogno di essere in barca a Itaca, nelle Ionie o in qualche isola del sud.
Lei documenta sempre i suoi lunghi viaggi con video e fotografie, che poi utilizza nell’attività artistica, almeno come punti di partenza.
Ho prodotto una serie di tecniche miste, che ho chiamato Visioni, in cui trasformo il documento di viaggio in chiave onirica. Nel ciclo Donne e Dee mi sono riferita ad immagini di divinità femminili che ho abbozzato sul mio album mentre visitavo l’Antico Egitto.
Uso la fotografia come strumento pittorico, e mi piace molto lavorare in camera oscura. Ho realizzato, ad esempio, un reportage sui ritratti del Cimitero monumentale di Milano, che si stanno lentamente ma inesorabilmente cancellando.
Nelle mie ultime opere attingo direttamente al ricordo, il tema della memoria è ricorrente. L’immagine richiama qualcosa che viene da dentro e che esisteva, anche se nascosta, da prima della sua concretizzazione.
Perché dipinge spesso corpi di donne come isole e simboli della natura?
Perché la donna è un’isola e l’isola è una donna. E’ un concetto che sento in me, che mi appartiene.
Paesaggi interiori, viaggi mentali… il viaggio non è altro che un brandello di tempo, un istante. Il paesaggio è un modo per fermarlo, per renderlo eterno. In quel momento viviamo noi stessi, e ci viene rivelato qualcosa di noi che non conoscevamo.
Che cosa ha esposto di recente?
In una galleria milanese ho esposto alcune tele dal ciclo Geografie Umane. Sono lavori piuttosto grandi, molto emozionali, per lo più oli. E poi un’installazione, The Humming Cloud, realizzata su tavole di legno sagomate, che rappresenta due donne/nuvole.
Come definirebbe la sua poetica?
La mia ambizione è di comunicare attraverso un linguaggio emotivo, lirico. La mia ricerca si concentra sulla vibrazione del colore e sulla spontaneità.
Quali sono gli artisti che continuano ad ispirarla e perchè?
Sono molti… Sicuramente Klein, per l’essenziale, la magia e il mistero che pervadono i Monocromi e le Antropometrie. Rauschenberg, per il trattamento della materia, che plasma l’emozione e stimola la memoria. Schifano, perché ne sento la straziante sofferenza. Dario Fo, perché riesce a fare tante cose diverse, sempre in maniera geniale. Gianfranco Pardi, intenso nei colori, nel concetto e nella sintesi. Picasso, in particolar modo quello dei primi tempi, per la lucidità del segno. Poi, naturalmente, i grandi maestri come Piero, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio, Goya, Ingres…
Un’ultima domanda: lei afferma di sognare spesso Itaca. Ma quale sarebbe la “sua” Itaca, potendo scegliere?
Non c’è un altro posto come Itaca. Itaca è l’immagine simbolica che motiva il viaggio ed insieme il luogo dove andare a trascorrere la parte che ci resta della vita. Il viaggio rappresenta il rischio, l’incertezza: quindi la vita stessa.
La mia Itaca potrebbe essere la riscoperta dell’archetipo femminile, la donna selvaggia, che cura gli affetti ma che è anche in grado di spiccare il balzo e volare lontano.