Un’opera di Andrea del Sarto raffigurante la “Madonna con Gesù Bambino ed il piccolo San Giovanni Battista” – dipinto che, grazie ad indagini con i raggi X , ha rivelato il disegno sottostante e alcuni pentimenti, segno di un lavoro autentico svolto dal maestro – è apparsa alcuni anni orsono sul mercato londinese. Il processo attributivo e il ritorno del dipinto sul mercato hanno acceso i riflettori sulla vita di Andrea del Sarto e in particolare sulla donna effigiata dal quadro. Gli studiosi non hanno dubbi che la moglie dell’artista, com’era avvenuto in numerose altre opere, abbia prestato il proprio volto anche per questo quadro. Rapporto venato di sadomasochismo fu quello che legò Andrea a Lucrezia, almeno secondo la testimonianza di Vasari. Abbiamo ricostruito una storia nella quale arte e amore, violenza e piacere d’assoggettarsi s’intrecciano indissolubilmente.
L’artificiosa bellezza delle donne del Manierismo, che ricordiamo sempre per un collo smisurato, per lunghe dita eleganti che pizzicano, fior da fiore, un piacere elegante, per un viraggio cromatico meravigliosamente artificioso o per ombre colorate da cui sono avvolte in fiamma, appartenne smisuratamente a Lucrezia del Fede, moglie di Andrea del Sarto.
La perfezione algida del suo volto di domatrice, la cui anima tracima sul volto con un’onda di sopraffazione, emerge inequivocabilmente dai dipinti del maestro toscano – considerato l’anello di congiunzione tra la verità pittorica rinascimentale e, appunto, il fenomeno manierista – con la forza di una perfezione fisionomica sprezzante.
Siamo al cospetto di una bellezza insultante, dotata della capacità strumentale di divenire oggetto d’offesa e di rapina. Vasari, ne “Le Vite” costruisce buona parte del ritratto di Andrea nel contrappeso tra i talenti artistici del maestro e la zavorrante, soverchia figura di Lucrezia che tanta parte ebbe, a giudizio dell’Aretino, a bloccare – o quantomeno a limitare – la gloriosa ascesa del pittore, invischiato in una trama degna di Sacher Masoch e ciò ben prima che fossero letterariamente codificati gli stivali scuri e le pellicce delle donne dominanti. Vasari parla per conoscenza diretta.
Egli, infatti, in qualità di allievo, frequentò la bottega di Andrea e poté pertanto raccogliere notizie di prima mano, nonché osservare il comportamento degli sposi. Sappiamo bene quanto la struttura vasariana attingesse al modello dell’apologo, con un enunciato morale in apertura, la cronistoria degli eventi e la conclusione configurata come tesi che chiudeva circolarmente, con una sorta di giudizio inappellabile, la vicenda biografica, connettendo strettamente le inclinazioni caratteriali e i percorsi esistenziali degli artisti con lo sviluppo formale delle opere stesse; o comunque cogliendo sempre, dal tessuto degli eventi, contraddizioni o conferme alle atmosfere espresse pittoricamente.
La storia d’Andrea del Sarto è costruita attraverso un montaggio per opposizioni, tra le altezze, ben esibite, alle quali il pittore seppe artisticamente accedere e la bassezza della sua vita d’uomo, materialmente e psicologicamente sopraffatto. Vasari ne compianse pertanto la sorte: “Egli è pur da dolersi – annota l’aretino – de la fortuna, quando nasce un buono ingegno e che e’ sia di giudizio perfetto nella pittura e si facci conoscere in quella eccellente, con opere degne di lode, vedendolo poi per il contrario abbassarsi ne’ modi della vita e non potere temperare con mezzo nessuno il male uso de’ suoi costumi”.
E Andrea, venuto al mondo sotto il segno dei creativi vincenti, compiuto già un percorso di rilievo, fu progressivamente spento, sempre secondo l’aretino, “da un desiderio d’un suo appetito che presto rincresce”. Se insomma Del Sarto non fosse stato prigioniero della sua donna – e la colpa a lui assegnata è quella di non aver reagito al proprio carattere arrendevole – “se avesse atteso a una vita più civile et onorata e non trascurato sé e i suoi prossimi, per lo appetito di una sua donna che lo tenne sempre e povero e basso, sarebbe stato del continuo in Francia, dove egli fu chiamato da quel re che adorava l’opere sue e stimavalo assai (…)”. Andrea era venuto alla luce nel 1486. Il padre, un sarto fiorentino, si preoccupò di dare una formazione di base al bambino, mandandolo a scuola di grammatica e successivamnente, quando il piccolo ebbe compiuto i sette anni, lo collocò a bottega da un orefice.
Andrea disegnava con grande sicurezza e ciò aveva indotto, sempre secondo il tracciato biografico vasariano, il pittore Barili a portarlo con sé a bottega. Il ragazzino, oltre a svolgere pratica nell’atelier, ebbe la possibilità di confrontarsi, in una Firenze ricca di testimonianze della Maniera moderna, con le opere dei grandi maestri. Il resoconto vasariano riferisce che, nei giorni di festa, Andrea si recava in “compagnia di molti giovani alla sala del papa dov’era il cartone di Michel Agnolo Buonarroto e similmente quello di Lionardo da Vinci. Et ancora che egli ci fussino disegnatori assai, e terrazzani e forestieri, Andrea vi disegnò a paragone di molti, quantunque egli fusse giovanetto”.
Immaginiamo quella sala gremita: borghesi, ma pure contadini, gente del popolo venuta da lontano per ammirare quei disegni prodigiosi, come i braccianti del secondo novecento si sarebbero infilati in un cinema prodigioso di campagna; e tra questa moltitudine, pittori e disegnatori che esercitavano la mano, piegandola alle linee sicure dei maestri; e, ancora, tra costoro ben si stagliava il piccolo Andrea che non disegnava peggio dei colleghi, al punto che il Francia, lo osservò con attenzione, e, convinto da quelle sue prove, lo prese con sé a bottega, anche se la formazione più incisiva sarebbe avvenuta presso Piero di Cosimo. Giunsero così le prime commissioni e il primo benessere economico.
E’ a questo punto, avvertendo il sonante sfavillio di una ricchezza promessa, che nella vita del giovane maestro irrompe Lucrezia. “Era in quel tempo in via S. Gallo maritata una bellissima giovane a un berrettaio, la qual teneva seco non meno l’alterezza e superbia, ancor che fussi nata di povero e vizioso padre, ch’ella fosse piacevolissima e vaga d’essere volentieri intrattenuta e vagheggiata d’altrui. Fra i quali de l’amor suo invaghì il povero Andrea, il quale dal tormento del troppo amarla aveva abbandonato gli studii de l’arte et in gran parte gli aiuti del padre e della madre. Ora nacque ch’una gravissima e subita malattia venne al marito di lei, né si levò del letto che si morì di quella. Né bisognò ad Andrea altra occasione (…) Senza far motto a nessuno, prese per sua donna la Lucrezia di Baccio del Fede, che così aveva nome la giovane, parendogli che le sue bellezze lo meritassero e stimando molto di più l’appetito de l’animo che la gloria e l’onore per il quale già caminata tanta via”. L’unione fu giudicata negativamente dagli amici e dai parenti di Andrea, “laonde saputosi per Fiorenza questa nuova, fece travolgere l’amore che gli era portato in odio dai suoi amici, parendogli che con la tinta di quella macchia avessi oscurato per un tempo la gloria e l’onore di così chiara virtù. E non solo questa cosa fu cagione di travagliar l’animo d’altri suoi domestici, ma in poco tempo ancor la pace di lui che, divenutone geloso e capitato a mani di persona sagace atta a rivenderlo mille volte e fargli supportare ogni cosa, che datoli il tossico della amorose lusinghe, egli né più qua né più là faceva ch’essa voleva”.
Il cambiamento repentino d’Andrea aveva avuto scandalose anche nell’ambito dei rapporti familiari. Il giovane aveva interrotto l’assistenza economica prestata ai propri genitori. Vasari insiste sul topos della perfidia filiale, non già presente nell’animo dell’artista, ma indotta dalla rapacità della sua donna:“Et abandonato del tutto que’ miseri e poveri vecchi, tolse ad aiutare le sorelle e il padre di lei in cambio di quegli. Onde chi sapeva tal cose per la compassione si doleva di loro et accusava la semplicità di Andrea essere con tanta virtù ridotta in una trascurata e scelerata stoltizia; e tanto quanto da gli amici prima era cerco, tanto per il contrario da tutti fuggito”. Lucrezia presidiò la vita del compagno, non evitando di planare sinistramente anche sulla bottega, dove “non fu nessuno”, nessun garzone, nessun aiuto “o grande o piccolo, che da essa con cattive parole e con fatti nel tempo che vi stesse non fussi dispettosamente percosso; del che ancora ch’egli vivessi in questo tormento gli pareva sommo piacere”.
Situazione complessa che costituiva una notevole limitazione alla carriera dell’artista. Pur non imputando alla moglie le colpe di una situazione professionalmente stagnante, Andrea del Sarto cercò un varco che gli consentisse di migliorare il livello economico della committenza e di misurarsi con temi nuovi. “Visto che egli non s’alzava da terra, e lavorando di continuo non faceva alcun profitto, et avendo il padre di lei e tutte le sorelle che gli mangiavano ogni cosa, ancora che fosse avvezzo a tenerle, quella vita gli dispiaceva.
Conosciuto questo qualche amico che lo amava, più per la sua virtù che per i modi tenuti, cominciò a tentarlo che egli mutassi nido”.
L’occasione nacque dall’invito ricevuto da Francesco I, re di Francia. Il pittore, che pensava di conseguire elevati guadagni, ottenne dalla moglie il consenso al viaggio, che fu condiviso con l’aiuto di bottega, Andrea Sguazzella. “Et arrivati alla corte, fu dal re fattoli grata accoglienza et allegra cera. Né passò senza gustare il primo giorno la liberalissima cortesia di quel principe, donandogli veste, danari et altri Arnesi”. Andrea realizzò così alcuni dipinti, tra i quali il ritratto del Delfino, ma, mentre lavorava a un San Girolamo Penitente, ricevette le lettere della moglie. “Venne un giorno una man di lettere intra molte che prima gli eron venute, mandate dalla Lucrezia, sua donna, rimasa in Fiorenza sconsolata per la partita sua; – aggiunge Vasari – et ancora che non li mancassi e che Andrea avessi mandato danari e dato commissione che si murassi (che si costruisse, ndr) una casa dietro alla Nunziata, con darle speranza di tornare ogni dì, non potendo ella aiutare i suoi come faceva prima, scrisse con molta amaritudine a Andrea, e mostrandogli quanto era lontano, e che ancora che le sue lettere dicessino ch’egli stessi bene, non però restava mai di affliggersi e di piagnere continuamente. Et avendo acomodato parole dolcissime, atte a sollevar la natura di quel povero uomo, che l’amava purtroppo, cercava sempre ricordarli alcune cose molto accorabili, talché fece quel pover uomo mezzo uscir di sé nell’udire che, se non tornava, la troverebbe morta”.
Temendo che la moglie soffrisse mortalmente a causa della sua protratta assenza, divorato dai ricordi dolci dell’amore, Andrea lasciò la corte, giurando sul Vangelo, al re di Francia, un rapido ritorno. Egli – si giustificò – si sarebbe recato a Firenze per portare poi con sé la moglie alla corte. L’artista non mantenne la promessa e Francesco I si dimostrò molto offeso. Andrea riprese a Firenze la vita di sempre. I lavori furono numerosi, il successo discreto, anche se limitato rispetto ai risultati che avrebbe potuto raggiungere con una prolungata permanenza in Francia. Cercò consolazione in una condizione di vita all’apparenza dominata dai lacci dell’amore. Ma Lucrezia ebbe modo di consegnarlo alla morte con una dichiarazione di drammatica indifferenza. A causa della permanenza dei lanzichenecchi, che avevano aperto a Firenze alcuni accampamenti, in città s’era rapidamente diffusa la peste. Secondo il racconto di Vasari, il pittore fu colpito dalla malattia al rientro dal mercato mattutino. “Un giorno (era il 1531, ndr) si ammalò gravemente, e senza avere allora molti rimedii, benché non bisognassi, peggiorando egli venne molto in estremo del male. Laonde, postosi in letto giudicatissimo e la donna sua impaurita, credendo ch’e fussi ammalato di peste, il più ch’ella poteva li stava lontana. Per il che Andrea senza essere visto, miseramente dicono che si morì, che quasi nessuno se ne avide”.
La biografia
Figlio del sarto Agnolo di Francesco, è l’ultimo grande pittore classico a Firenze (1486-1530) prima dell’avvento del Manierismo. Allievo di Piero di Cosimo, influenzato da Leonardo da Vinci e da Raffaello, è un classicista per eccellenza. Disegnatore “senza errori” (scrive il Vasari), mescola il formalismo romano, la dolcezza dello sfumato leonardesco e la luminosità del colore veneto dimostrando così uno stato di ricerca e di “crisi” che volge al Manierismo. Numerosi i suoi cicli di affreschi. Nel Chiostro dei Voti dell’ Annunziata realizza scene della vita di San Filippo Benizzi (1510) e, dopo due probabili viaggi a Roma, scene della vita di Maria (1514 ca.) e la lunetta con la “Madonna del Sacco” (1525), una delle sue opere migliori. Notevole, nel Chiostro dello Scalzo la sua grisaille con la vita di San Giovanni Battista (dal 1515). Nella villa medicea di Poggio a Caiano realizza un “Tributo a Cesare”, ma fra le sue opere maggiori è certamente il Cenacolo di San Salvi (realizzato fra il 1520 e il ’25, benché il contratto sia del 1511), definito l’unica “Cena” che non sia stata annullata da quella di Leonardo.