Proseguono le indagini per ricostruire la sonorità del mondo etrusco. A rendere possibile le ricerche, condotte da un sassofonista e da un’archeologa – la ricostruzione degli strumenti a fiato, in legno di bosso e in avorio, realizzati a partire dagli originali recuperati nelle acque della Baia del Campese.
La nave, affondata 2600 anni fa – ora esposta nell’Antiquarium della Fortezza Spagnola di Santo Stefano, all’Argentario – conteneva, oltre ceramiche di Corinto, di Sparta, dall’Etruria, della Grecia orientale, dell’isola di Samo e di centri punici, oltre lingotti di rame e piombo, anche oggetti in legno che si rivelarono parti di flauti miracolosamente conservati.
Il sassofonista Stefano Cocco Cantini e l’etruscologa Simona Rafanelli, direttrice del Museo Civico Archeologico di Vetulonia hanno lavorato una decina di anni – tra strumenti originali e fonti iconografiche – per giungere alla messa a punto dei prototipi. La chiave di volta è stata l’inserimento di un’ancia – una sottile linguetta mobile simile a quella che caratterizza gli arcaici launeddas sardi – all’interno dello strumento a fiato.
La particolarità di questi strumenti, come sottolineato dallo stesso Cantini, è la capacità di poter emettere in contemporanea due suoni: un bordone per accompagnare una serie di arpeggi che vengono modulati. Un unicum a livello musicale.
L’accordatura avveniva, a giudizio di Cantini e Rafanelli, a 432 hertz, la frequenza che metterebbe l’uomo in armonia con l’universo. I due studiosi sono giunti anche ad un altro sorprendente risultato: osservando i celebri dipinti di Tarquinia sono riusciti a ricostruire la tecnica utilizzata per suonare emettendo melodia e accompagnamento al tempo stesso.
E’ chiaro che, invece per i temi melodici ricorrenti all’epoca, si possano formulare ipotesi ricostruttive.