[D]al 26 marzo al 2 giugno 2014 Palazzo Reale ospita una grande mostra dedicata a Piero Manzoni, uno degli artisti più geniali, innovatori e controversi del XX secolo, nato a Soncino nel cremonese e morto a Milano nemmeno trentenne, nel 1963.
Promossa e prodotta dal Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale e Skira editore, la mostra è curata da Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo in collaborazione con la Fondazione Piero Manzoni ed è realizzata nell’ambito del progetto “Primavera di Milano”.
“Questa mostra è uno dei capisaldi della ‘Primavera di Milano’, il palinsesto di eventi culturali che abbiamo voluto dedicare a tutti gli artisti che hanno fatto grande la nostra città e la sua storia, con mostre, concerti, spettacoli e approfondimenti, che si snodano in giro per Milano lungo la primavera del 2014” – ha dichiarato l’Assessore alla Cultura Filippo Del Corno.
Milano è stata la sua città, dove ha operato da protagonista della stagione di maggior fervore del secondo dopoguerra, ponendosi a fianco di un maestro come Lucio Fontana e agendo da referente primario della neoavanguardia europea, tra la Francia di Yves Klein e la Germania del gruppo Zero, l’Olanda del gruppo Nul e la dimensione cosmopolita di Nouvelle Tendance.
Mezzo secolo è trascorso dalla sua scomparsa precoce, e il riconoscimento internazionale di Manzoni è un fatto compiuto. Per questo Milano ha deciso di dedicargli una mostra, la più importante mai realizzata in città dalla sua morte, che ne documenti il percorso in tutta la sua ampiezza e ricchezza problematica attraverso la presentazione di oltre 130 opere che rendono conto della sua intera parabola artistica.
Genialmente radicale, Manzoni viene raccontato dagli esordi in area postinformale alla concezione degli Achromes, dalle Linee alle Impronte, dal Fiato alla Merda d’artista, dal coinvolgimento del corpo fisico vivente nell’opera alla dimensione totalizzante dell’esperienza estetica di progetti come il Placentarium.
Un apparato di materiali documentari originali: manifesti, fotografie, cataloghi, lettere integra il percorso espositivo, restituendo il clima fervido a cavallo tra anni ’50 e ’60, quando la città è già una delle autentiche capitali culturali europee. E viene proposto un filmato con documenti inediti che costituiscono rarissima testimonianza d’immagini registrate dell’artista in alcune tra le sue più note azioni creative, come le uova segnate dalla sua impronta digitale destinate alla Consumazione dell’arte o le persone firmate come Sculture viventi.
Il catalogo edito da Skira raccoglie i testi di Flaminio Gualdoni, Giorgio Zanchetti, Francesca Pola, Gaspare Luigi Marcone. In occasione della mostra, nella collana SMS Skira Mini Saggi, viene pubblicata anche Breve storia della merda d’artista, di Flaminio Gualdoni.
Ed è con l’aiuto di Gualdoni che percorriamo la breve ma intensa stagione artistica di Manzoni e la sua straordinaria produzione, di cui la mostra di Palazzo Reale presenta una significativa panoramica.
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Piero Manzoni 1933-1963
a cura di Flaminio Gualdoni e Rosalia Pasqualino di Marineo
Palazzo Reale
Piazza Duomo 12 | Milano
26 marzo – 2 giugno 2014
Orari:
lunedì 14.30-19.30 da martedì a domenica 9.30-19.30 giovedì e sabato 9.30-22.30 Il servizio di biglietteria termina un’ora prima della chiusura
Ingresso a pagamento
www.mostramanzonimilano.it
Ufficio Stampa Skira editore
Lucia Crespi tel. 0289415532 – 0289401645 lucia@luciacrespi.it
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Manzoni presenta le sue prime creazioni a Cremona nel 1956 e subito viene definito “surrealista” dal giornale locale, non ha avuto una vera e propria formazione pittorica, ma ha letto molto e riflettuto moltissimo ed ha chiaro sin dall’inizio che la cosa che gli importa maggiormente è essere artista.
Artista alla Dubuffet dove l’operazione artistica è intesa come pulsione pura e spontanea, reinventata in tutte le sue fasi dall’autore. Manzoni parte così dalla stessa superficie del quadro che viene manomessa e contaminata: “egli punta a una aformalità fatta di gorghi impuri di materia bituminosa – dice Gualdoni – che saturano lo spazio disponendosi per comportamenti non orientati intorno a un asse che incardina lo spazio orizzontalmente”. E Manzoni stesso dichiara nel 1957: “… consideriamo il quadro come nostra area di libertà in cui andiamo alla scoperta delle nostre immagini prime. Immagini quanto più possibile assolute, che non potranno valere per ciò che ricordano, spiegano, esprimono, ma solo in quanto sono: essere”. “L’opera dunque – chiosa Gualdoni – non è figlia di un modo, d’uno stile. Non dice, semplicemente è, e nel suo essere si fa garante della propria stessa necessità”.
Sul concetto di opera come presenza concreta Manzoni si confronta con vari altri artisti: Yves Klein con i suoi monocromi assoluti e immateriali, Lucio Fontana con i suoi fori sulla superficie e frammenti di vetro applicati alla tela, Alberto Burri con i suoi sacchi di juta, Conrad Marca-Relli con i suoi collage-paintings, Mimmo Rotella con i suoi manifesti murali strappati, Antoni Tàpies, punta di diamante di questa tendenza. Con Gastone Novelli Manzoni condivide la tensione verso “l’origine delle cose” e mette sempre più a fuoco – afferma Gualdoni – una ” cruda e snudata materiologia del quadro, la configurazione di una presenza che si oggettiva come cosa tra le cose”.
Da quadri scuri fortemente materici con impasti di olio, catrame, smalto e oggetti come sassi e chiavi concepiti senza titolo, Manzoni evolve poi verso quadri bianchi con rilievi plastici e ombre, con stesure grumose di gesso spatolato che poi definirà Achrome, di cui sono in mostra alcuni esempi fondamentali. “Il gesto – dice Gualdoni – è dunque l’essenza dell’operare”. E ancora: “Segno oggettivo è la grinza, segno oggettivo è la griglia geometrica che compartisce in riquadri la superficie”. Ma “per Manzoni la geometria è una sorta di grado sorgivo dell’essere, una minimalizzazione del fare che lo concentra sul proprio stesso darsi, senza implicazioni, senza premeditazioni, senza intenzioni”. Un quadro dunque che si fa oggetto, desolata presenza, vuoto. Come scriveva nel 1970 Vincenzo Agnetti, storico compagno di Manzoni: “questi quadri bianchi, così semplici, così vicini al niente: queste tavole di bellezza ricordante, di tentativo autoconvincente nell’assenza per una possibilità x”.
Mentre produce la serie degli Achrome, Manzoni esplora la pratica di segni di codice fortemente connotati. Sono lettere alfabetiche maiuscolo, tracciate con dime metalliche sulla superficie in sequenze ripetitive regolari, foglietti di calendario in ordine di successione, impronte digitali singole o in serie, fogli piegati a replicare le grinze delle tele, anche astrazioni cartografiche. “Segni insieme perfettamente concreti e ad altissimo tasso d’astrazione – afferma Gualdoni – dotati d’una identità pregnantissima e insieme rastremati a icona mentale definitiva. Parola, corpo, luogo. Pensiero”. Nel 1962 nasce l’edizione 8 tavole di accertamento, repertorio dei segni essenziali. Molti di questi esperimenti vedono coinvolta la carta bianca che ben si presta al grado di astrazione concettuale che Manzoni mette in gioco. “Manzoni – dice Gualdoni – riflette sulla possibilità di sottrarsi dalla logica materica quantitativamente greve che le superfici acrome suggeriscono, puntando al pensiero della cosa più che alla percezione della cosa“.
A volte Manzoni prende spunto da opere esistenti, per stravolgerle e trasformarle. Dal Rotolo di pittura industriale di Pinot Gallizio del 1958, basato sul principio dello svolgimento rotativo di un supporto per la realizzazione in continuo di tele che sia possibile vendere a metri, Manzoni prende la concezione – perfettamente congruente ai suoi ragionamenti dell’epoca sulla sostanza della carta, sul segno, lo spazio, il tempo – di un segno continuo d’inchiostro tracciato su un rotolo di carta che si svolge progressivamente, parcellizzabile in segmenti di qualsiasi lunghezza. Nasce così la Linea, definita da Gualdoni “estremo concettuale straordinario, affidato a un’economia esecutiva ridotta all’essenziale”. La striscia di carta tracciata è avvolta e conservata in un cilindro di cartone sigillato, di cui un’etichetta dichiara il contenuto. “Non serve neppure – sostiene Gualdoni – che lo spettatore ne constati l’effettività: l’enunciato dell’autore fa da garanzia a un puro scambio di pensiero con il fruitore. Il doppio momento dell’effettività e della pura sensibilità è uno dei raggiungimenti più distillati di Manzoni”. Alle Linee l’artista dedica la sua mostra personale nel dicembre 1959, la prima della galleria Azimut, lo spazio di tendenza fondato a Milano con Enrico Castellani. Sono dodici opere, con lunghezze che vanno da un massimo di 33,63 metri ad un minimo di 4,89: solo quest’ultima è esposta dispiegata e visibile. Di lì a poco Manzoni ne declina la versione massima, la Linea lunga 7200 m. Ospite a Herning in Danimarca dell’industriale mecenate Aage Damgaard, lavora nella sede del quotidiano Herning Avis, dove ha a disposizione un vero rullo continuo di carta da stampa. Gualdoni ne spiega così il procedimento: “facendolo scorrere tra due cavalletti metallici con assi rotanti approntati appositamente e azionati da manovelle manuali, l’artista traccia una linea ininterrotta grazie a un contenitore d’inchiostro culminante in un tampone: vista la dimensione del rullo, l’impresa assume un valore, oltre che epico, davvero in umore d’infinito. Conclusa l’operazione, il cospicuo rotolo viene contrassegnato da titolo, luogo, data, firma e da un’impronta digitale, poi collocato in un cilindro di zinco ricoperto da fogli di piombo recante la dichiarazione ormai usuale del contenuto in lettere lapidarie a rilievo. È evidente che tale contenitore intende assumere un aspetto paradossalmente monumentale, suggerire un senso di incorruttibilità e durata che amplifica la misura temporale implicita nell’idea stessa di linea. Inoltre Manzoni immagina, e ne scrive, di realizzare una serie di linee di lunghezza notevole da conservare sotto vuoto in contenitori d’acciaio inossidabile e da collocare in diversi punti del mondo, la cui somma equivalga a quella della circonferenza terrestre”. “Il punto cruciale è, ora – conclude Gualdoni – un’idea di acromia non più solo concepita come oggettività plastica, ma a tutti gli effetti come demateriazione e nitore intellettuale, come pensiero che si conosce al limite minimo della fisicizzazione”. A Palazzo Reale le Linee sono rappresentate da sette esemplari, tra cui appunto il cilindro con la Linea più lunga.
Nella mostra da Azimut del gennaio 1960 Manzoni presenta nuovi Achrome, decisamente trasformati rispetto alle prime versioni. Manzoni stesso dichiara: “La questione per me è dare una superficie integralmente bianca al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni intervento estraneo al valore di superficie; un bianco che non è un paesaggio polare, una materia evocatrice o una bella materia, una sensazione o un simbolo od altro ancora; una superficie bianca che è una superficie bianca e basta anzi, meglio ancora, che è e basta: essere“. Manzoni assume la tela non più come supporto, ma come superficie in se stessa: i segni che la percorrono secondo la sua geometria minimale sono realizzati da una macchina per cucire. Man mano l’artista adotterà materiali come cotone idrofilo, panno, polistirolo espanso, sassolini, paglia, carta compressa, fibra sintetica per realizzare opere di grande valenza concettuale, dense della sua presenza. In mostra è allestita una grande sequenza di Achrome, alcuni decisamente spettacolari.
Nel maggio del 1960 la nuova mostra da Azimut è dedicata invece alle “sculture pneumatiche”, definite poi Corpi d’aria. Un palloncino gonfiabile sino a un diametro di ottanta centimetri, un treppiede di quaranta centimetri per poggiarlo come su un piedistallo, un tubicino per gonfiarlo e una chiusura: il tutto è confezionato in una custodia di legno contenente anche le istruzioni per l’uso. L’artista determina il congegno e gli strumenti, disinteressandosi dell’esecuzione, che prevede la partecipazione attiva del fruitore stesso o di chiunque altro, indifferentemente. L’esito finale è un’opera dall’aspetto di essenziale scultura fatta d’aria, senza peso: corpo, ma evocante l’idea più corrente d’immaterialità. Manzoni sperimenta anche la possibilità di tenere in sospensione palloni gonfi d’aria grazie a una spinta verticale pneumatica, combinando immaterialità e assenza suggestiva di gravità. Come le Linee, anche i Corpi d’aria si presentano con l’aspetto di un prodotto seriale realizzato in numerosi esemplari. La confezione ricorda per certi versi la Boîte en valise duchampiana e annuncia una pratica che si diffonderà largamente negli anni ’60, gli Yearbox Fluxus in testa.
Come nelle Linee, allo spettatore è richiesto un atto di pura condivisione intellettuale, in assenza dell’esperienza fisica dell’opera. “Ancora una volta – afferma Gualdoni – Manzoni pone il pubblico nella condizione di dover accogliere l’autorità dell’artista sul piano di un nudo rapporto fiduciario: è un’opera d’arte perché è eseguita da un artista, e occorre aver piena confidenza nel suo enunciato. Anche in questo caso è decisivo il rapporto tra la fisicità della cosa e il suo prezzo in quanto opera d’arte: attribuire un valore mercantile secondo parametri artistici a qualcosa che non si può verificare (la Linea) o che è evidentemente una compaginazione di oggetti elementari senza pregio intrinseco e senza alcuna manipolazione (i Corpi d’aria) rende esplicito che l’oggetto della compravendita è l’adesione dell’acquirente all’identità, all’esistenza, al pensiero dell’autore. È “comprare Manzoni”, non “comprare un Manzoni”.
Manzoni introduce in questo caso una variante molto interessante. Nel caso l’acquirente voglia farsi gonfiare il palloncino dall’artista stesso, l’incremento di sostanza artistica dovuto al fiato autoriale sarà compensato a parte. Questa variante, che imprime una netta accelerazione all’identificazione dell’elemento artistico con il corpo stesso dell’artista, genera la serie Fiato d’artista. In questo caso un palloncino gonfiato e chiuso con appositi sigilli poggia su una base in legno su cui è applicata una targhetta in ottone, riproduzione fedele di una didascalia da museo, recante il nome dell’autore e il titolo dell’opera. “Il pubblico – afferma Gualdoni – è posto comunque nella condizione di decidere se sia disposto ad attribuire una qualità artistica agli atti ordinari dell’esistenza di un individuo, sulla base delle concezioni che essi mettono in gioco”.
Le Uova, che nascono contemporaneamente, presentate nella personale da Køpcke a Copenhagen nel giugno 1960, sono uova sode che l’artista trasforma in opere contrassegnandole con la propria impronta digitale: un archetipo corporeo marcato dal segno più convenzionalmente identitario. Il fruitore le può ingerire, entrando fisicamente in comunione con l’identità e l’esistenza fisica dell’artista. Le “uova consacrate dalla mia impronta” vengono presentate nel luglio dello stesso anno in Consumazione dell’arte, dinamica del pubblico, divorare l’arte, ultima delle mostre della galleria Azimut. Il pubblico è invitato a consumare centocinquanta uova predisposte da Manzoni in un vero e proprio happening dalle apparenze alla prima giocose ma, a ben vedere, di ben diverso spessore. Il meccanismo concettuale e simbolico prevede, nel caso dell’ingestione dell’uovo, divenuto un corpo equivalente a quello di Manzoni, che gli spettatori presenti assumano nel proprio corpo stesso una quantità fisica di artistico, partecipando compiutamente dell’esperienza dell’autore e della sacralità che gli viene riconosciuta. Qualora invece l’uovo non venga ingerito ma conservato nella sua variante di oggetto sculturale, ci ritroviamo in un classico caso di feticismo o, più esattamente, di qualcosa che ha molto a che fare con una evocazione dell’antico culto delle reliquie. “In effetti – chiosa Gualdoni – la sacralizzazione dell’artista, della sua identità e financo del suo corpo è uno degli aspetti dell’artistico che fanno più riflettere Manzoni, in questo tempo. Il corpo dell’artista è assumibile per molti versi come un corpo sacro, e la sua opera la reliquia per eccellenza cui è dato accedere, che è massimamente desiderabile possedere”.
Nel testo Progetti immediati Manzoni annuncia altre sperimentazioni possibili, molte delle quali destinate a rimanere inesplorate soprattutto per limiti tecnici ed economici. Racconta lui stesso che tra esse figura “un gruppo di corpi d’aria del diametro di circa m 2,50, da sistemarsi in un parco: mediante un piccolo dispositivo pulseranno con un lentissimo ritmo di respirazione, non sincronizzato. Nello stesso parco collocherò anche un piccolo boschetto di cilindri pneumatici allungati come steli che vibreranno sotto la spinta del vento. Ho anche in progetto, sempre per lo stesso parco, una scultura a movimenti autonomi. Questo animale meccanico trarrà il suo nutrimento dalla natura: di notte si fermerà e si rattrappirà su se stesso: di giorno compirà lenti spostamenti, emetterà suoni, proietterà antenne per cercare energia ed evitare ostacoli. Sto sviluppando inoltre una nuova serie di corpi di luce assoluti molto piccoli, tenuti in azione da un motore ridottissimo, indipendente, che non richiederà speciali installazioni”. Nasce in questo contesto anche la concezione del Placentarium, un teatro pneumatico immaginato per i Lichtballette, i “balletti di luce” di Piene, manifestazioni di puri eventi luminosi che comportano una condizione di immersione visiva da parte dello spettatore. Nell’involucro di diciotto metri di diametro retto da aria compressa possono trovare posto 73 spettatori ognuno dei quali non vede gli altri, è letteralmente circondato dallo schermo di proiezione e può vivere anche sensazioni acustiche e tattili. Qui entrano in gioco la coscienza della corporeità dello spettatore e quello del proprio stesso esistere.
Un ulteriore grado di delucidazione del corporeo e della non unidirezionalità del rapporto tra artista e pubblico si ha con la concezione delle Opere vive o Sculture viventi. La prima declinazione prevede che Manzoni apponga la propria firma al piedistallo su cui due modelle posano panneggiate come statue antiche, o che apponga firma e data direttamente sul loro corpo. “La tradizione fondatrice del nudo occidentale – afferma Gualdoni – quella per cui la statua è una finzione talmente perfetta da sostituirsi al vero, si ribalta qui nell’assunzione dell’essere vivente stesso nel cerchio dell’arte e della sua atmosfera magica, in virtù della firma di sacrazione dell’artista. Nell’evolversi delle riflessioni di Manzoni il piedistallo su cui mette in posa le modelle diventa la Base magica, ovvero una struttura in legno a tronco di piramide che simula il classico piedistallo da statua, con tanto di targhetta in ottone recante la didascalia “Piero Manzoni, Scultura vivente”, di cui un esemplare viene esposto a Palazzo Reale. Due sagome indicano la posizione in cui chi salga sulla base deve poggiare i piedi: fintantoché sarà sulla Base magica, la persona sarà a tutti gli effetti una Scultura vivente.
Manzoni interviene anche sulla regola che prevede che l’autenticità di un’opera debba essere certificata. Per questa ragione fa stampare dei blocchetti di Carte d’autenticità in tutto e per tutto simili a quelli ordinari, che consentono all’artista di dichiarare che la persona in questione è “a partire dalla data sottoindicata un’opera d’arte autentica e vera”. Lo spiega lui stesso: “Nel 1959 avevo pensato di esporre delle persone vive: nel ’61 ho cominciato a firmare, per esporle, delle persone. A queste mie opere do una carta d’autenticità. Sempre nel gennaio del ’61 ho costruito la prima “base magica”: qualunque persona, qualsiasi oggetto vi fosse sopra era, finché vi restava, un’opera d’arte…”. E continua facendo riferimento all’opera che lo ha reso celeberrimo: “Nel mese di maggio del ’61 ho prodotto e inscatolato 90 scatole di “merda d’artista” (gr. 30 ciascuna) conservata al naturale (made in Italy). In un progetto precedente intendevo produrre fiale di “sangue d’artista”.
Si tratta di una scatoletta per conserve del diametro di sei centimetri, sigillata, su cui è apposta un’etichetta a stampa, con la scritta in stampatello maiuscolo “Piero Manzoni” e sovraimpressa in italiano, inglese, francese e tedesco la dicitura “Merda d’artista. Contenuto netto gr 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961”. Sul coperchio la scritta “Produced by” precede la firma autografa, che è seguita dalla numerazione progressiva delle singole scatolette. L’etichetta della parte inferiore reca stampato “Made in Italy”. “Chiara è l’ironia – scrive Gualdoni – nel mimare il tipico linguaggio delle conserve alimentari, ed esplicita la volontà di attribuire all’oggetto l’aspetto di un prodotto merceologico a pieno titolo. Che si tratti di porre in vendita degli escrementi è semplicemente l’estremizzazione di un pensiero già ampiamente esplicitato da Manzoni intorno alla concretezza materiale del corpo e alla artisticità implicita in ogni atto dell’autore, dunque nelle sue reliquie”.
Il picco di massima controversia critica l’operazione lo raggiunge sul piano della questione del valore. Manzoni fissa il prezzo di Merda d’artista basandosi su un’arbitraria parità merda/oro, all’incirca 700 lire d’allora al grammo, indicandolo in trenta grammi d’oro.
“Lo scacco messo in atto da Manzoni – dichiara Gualdoni – consiste nel combinare prezzo dell’oro, merda e artisticità in un unico cortocircuito tanto pratico quanto mentale: è il “cupio dissolvi” dell’idea stessa di valore, in cui entrano in gioco elementi come la suggestione di reliquia, per paradosso negativo, del contenuto, e il pagamento di una merce/non merce di cui non si può accertare la natura ma solo accettarne in linea di principio la proclamata artisticità, secondo una parità aurea fattasi anch’essa ormai problematica”.
L’autunno 1961 vede Manzoni nuovamente a Herning, per un’altra stagione di lavoro foriera di intuizioni fervide. Nell’imminenza della grande mostra Nul allo Stedelijk Museum di Amsterdam, annuncia da Herning all’amico Henk Peeters: “Ho abbandonato i quadri in cotone per realizzare dei quadri con del pelo lungo. Impiego fibre diverse e anche delle fibre di nylon, che sono vendute già imbevute d’olio antistatico. Avrei grandi progetti, se potessi fare una mostra in più sale (e con molti soldi): una sala tutta in pelo bianco, una in bianco fluorescente. Ma ahimè!” Nascono a Herning una sfera in pelle di coniglio bianca sovrastante un parallelepipedo di legno bruciato, un achrome in forma di quadro in paglia sbiancata, un parallelepiedo di paglia sbiancata con una materia che reagisce alla luce posto su una base di legno bruciato, una finestra fosforescente, una nuova Base magica. Molte di queste ultime opere sono esposte a Palazzo Reale.
Nel giardino della fabbrica danese Manzoni fa inoltre collocare un parallelepipedo in ferro sul quale compare la scritta in lettere lapidarie Socle du monde, base del mondo, quintessenza d’ogni Base magica. Nell’esperienza fisica la scritta si legge capovolta, perché in quella mentale è la base a sorreggere la sfera terrestre e non viceversa. “È un omaggio dichiarato a Galileo – dice Gualdoni – colui che ha insegnato all’uomo a vedere in modo nuovo. Anche questo è un modo di pensare la realtà tutto nuovo che Manzoni fissa con un gesto secco di bruciante genialità”.
Nel marzo 1962 si inaugura ad Amsterdam la mostra Nul, prima grande celebrazione pubblica del clima di ricerca del quale Manzoni è caposcuola riconosciuto. Dalle lettere a Peeters sappiamo che Manzoni intende presentare una serie di achrome, tra i quali almeno uno fosforescente e uno con cobalto cloruro, datanti a ogni anno a partire dal 1957, e inoltre le uova con impronta digitale, serie di impronte digitali, linee di varia lunghezza compresa la versione da 1140 metri nata nel frattempo. Propone inoltre una sessione in cui firmare donne nude come Sculture viventi. Immagina anche possibilità ulteriori. Vorrebbe realizzare una parete tutta fosforescente, una linea lunga da sette a dieci chilometri, una stanza riempita sino al soffitto di Corpi d’aria oppure satura del suo respiro e sigillata come fosse un unico monumentale Fiato d’artista, una stanzetta tutta dipinta di bianchi luminosi, che sia come “una scatola di luce per gli spettatori”. Riesce a realizzare solo due progetti. Il primo è un vasto pannello con ciuffi di fibra sintetica di un metro e trentacinque centimetri per tre e trenta. Il secondo è una linea di grande lunghezza realizzata su un rullo di carta continua da stampa messo a diposizione dal quotidiano locale Het Vrije Volk, entrambe le opere saranno poi distrutte. Altri achrome nascono nel frattempo. Manzoni si concentra sulle sequenze seriali di batuffoli di cotone idrofilo o di panini, sulle possibilità dimensionali dei ciuffi di fibra sintetica, sul valore di superficie dei ciottoli e dei pallini di polistirolo espanso.
Nascono anche pacchi avvolti nella carta e sigillati con corda, piombo e ceralacca come se fossero invii postali, presentati a coppie, anch’essi esposti in mostra: quasi prosecuzioni, dal punto di vista del congegno intellettuale, della sottrazione dell’opera avviata con le Linee e proseguita con Merda d’artista.
Si colloca in questo periodo anche l’incontro con Jes Petersen, editore d’avanguardia con il quale inizia a progettare una monografia sul suo lavoro. Egli la concepisce come un libro di cento pagine in plastica traslucida, senz’altro testo che il titolo, incarnazione perfetta del suo vivere l’acromia.
Piero Manzoni. Life and Works uscirà effettivamente nel 1963, a ridosso della morte dell’artista.
Il 6 febbraio del 1963, infatti, nel culmine della sua attività e consacrazione artistica, Manzoni viene trovato morto nel suo studio di Via Fiori Chiari a Milano.
La sua città gli rende omaggio con una mostra di grande valore scientifico e forte impatto visivo, dove sono esposti gli esemplari più importanti di tutte le sue invenzioni, attraverso le quali ha scardinato il modo di operare artistico nella seconda metà del Novecento e imposto la sua personalissima visione del mondo.
Le provocazioni di Piero Manzoni in mostra al Palazzo Reale di Milano
Dal 26 marzo al 2 giugno 2014 Palazzo Reale ospita una grande mostra dedicata a Piero Manzoni, uno degli artisti più geniali, innovatori e controversi del XX secolo, nato a Soncino nel cremonese e morto a Milano nemmeno trentenne, nel 1963