L’ uomo dal corpo sgraziato – i lineamenti del viso gonfi e arrossati, il pizzetto incolto e i denti irregolari, i muscoli flaccidi, le mani tozze, i tratti duramente provati dalle precarie condizioni di vita – volge lo sguardo in direzione di un punto imprecisato, esterno alla tela. E’ alla ricerca, tra l’immaginaria folla che gli sta davanti, del cliente al quale vendere un oroscopo.
E’ così che Luca Giordano (1634-1705) dipinge il filosofo Democrito nel Venditore d’oroscopi (1657-58) della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia. L’erudito, che ha in mano un foglio con le dodici “case” ancora bianche e che in una sacca conserva altri fogli e quadri astronomici, era conosciuto pure come astrologo, oltre che mago e chiromante. Non possiamo poi dimenticare che, per un errore, si attribuì al greco anche la stesura di un importante testo di alchimia. Da qui la scelta iconografica che permette all’artista di abbassare il livello sociale del protagonista, rendendolo simile a un venditore di strada. Su questo piano si gioca tutta l’ambiguità del pensiero barocco sotteso all’opera. Il filosofo non deve mirare alla ricchezza, ma le sue speculazioni intellettuali lo portano in fondo alla scala sociale. Chi guarda il quadro non può che domandarsi quale sia la scelta giusta: quella di un povertà ricca di riflessione o di un’agiatezza che contempera le tempeste del destino, giocando tutto sul “qui e adesso”? E poi, è vero che il pensiero è in grado di trasformare il mondo, se i sapienti sono costretti a sopravvivere come derelitti? I saggi sono un soggetto ricorrente tra Quattrocento e Settecento. La situazione assume caratteristiche particolari nel Rinascimento – età che pone l’uomo, e quindi il suo intelletto, al centro del Tutto -, quando la trasposizione delle figure filosofiche avviene a un livello di celebrata nobiltà. Ricordiamo allora il solenne dialogo tra Aristotele e Platone raffigurato da Raffaello nelle Stanze vaticane o l’affresco Eraclito e Democrito di Donato Bramante, oggi a Brera, nel quale l’artista esterna con efficacia la dicotomia riguardante le diverse concezioni del mondo espresse dai due eruditi. Se il primo, depresso e con gli occhi lucidi, rattristato dalla superficialità del collega, si mostra legato alle certezze che gli sono offerte dai numeri, il secondo si fa portavoce, tramite un perenne sorriso sornione stampato sul volto, di una visione ottimistica e fatalistica del creato.
Nel Seicento, però, la situazione muta radicalmente. La scelta del rifiuto dei desideri e dei beni materiali, come condizione per raggiungere meglio il piano delle idee, porta la rappresentazione dei pensatori più vicina a un’immagine di indigenza ieratica e permette l’individuazione di un registro basso-grottesco, che enfatizza la povertà, trasformandola in nera miseria, come avviene in Salvator Rosa, Jusepe de Ribera e, appunto, Luca Giordano. Assistiamo cioè alla scomparsa della grandezza e del timore reverenziale suscitato da queste mitiche figure. Si preferisce analizzare il loro aspetto più fragilmente terreno e la loro esposizione alla crudezza della sorte, che dimostra di umiliare così ogni alta speculazione intellettuale. I soggetti risultano perfettamente contaminati dalla pittura nata in seguito alla diffusione del romanzo picaresco, un’arte che trae ispirazione dalla realtà quotidiana, dal popolo, dalle sue piccole gioie e grandi miserie. E’ in questa chiave che dobbiamo leggere la decisione di Giordano di dipingere un uomo di cultura con le sembianze di un derelitto che campa cercando di vendere scampoli di carta proiettati verso il futuro.