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Nel Seicento in Europa si diffonde il trompe-l’œil, sfida alla perfetta riproducibilità delle cose che assume i caratteri di un genere pittorico totalmente autonomo basato sulla filosofia dell’inganno percettivo
di Enrico Giustacchini
[T]rasecolamento. Sbalorditi dall’inganno, gabbati dalla mirabile illusione, davanti a sua maestà il trompe-l’œil – re dei virtuosismi, quintessenza d’ogni stupefacente miraggio – tutti, gentiluomini e plebe, strabuzzano la pupilla, brancicano a dita tese nel tentativo comico del disvelamento di un enigma. Falso o vero, reale od irreale, semplicità palpabilmente euclidea della geometria piana – area del quadrilatero, base per altezza, facilissimo – od il fremito, inquietante e fallace, della terza dimensione?
Nel Seicento, il trompe-l’œil è oggetto di diffusa infatuazione. Vive un boom che autorizza a considerarlo oramai come un genere pittorico autonomo. Gli specialisti elevano le proprie capacità esecutive sino al sublime, salvo rimanere magari imprigionati nella gabbia della sfida parossistica alla perfetta riproducibilità delle cose. L’olandese Samuel van Hoogstraten sintetizzerà filosofia ed ambizioni di un filone e di un’epoca scrivendo nel 1678: “La pittura è una disciplina che consiste nel rappresentare tutte le idee del mondo visibile in maniera da ingannare gli occhi”. Idee che egli metterà in pratica in alcuni strabilianti quadri-manifesto, tra i quali il celeberrimo “Quodlibet” del museo di Karslruhe: un pêle-mêle dove i nastri colorati ed inchiodati al legno – secondo un’iconografia frequentissima nel genere – sorreggono forbici, occhiali, pettini, lettere, sigilli di ceralacca, cammei, e poi penne d’oca mozzate, libriccini, medaglioni d’oro, pennelli, fogli arrotolati e gualciti…
Accanto a questo dei pêle-mêle, predominano, tra i soggetti amati dai maestri del trompe-l’œil, la caccia – selvaggina appesa alla parete – o la raffigurazione di incisioni, pergamene e documenti affissi su tavole. A trionfare sono soprattutto artisti dell’Europa settentrionale, dove – come ricordano Fabrice Faré e Dominique Chevé nello splendido volume “Il trompe-l’œil”, edito qualche anno fa da Leonardo Arte “l’assenza di regole severe e di dogmi estetici libera e moltiplica la varietà nella creazione artistica”. E’ vero del resto che se da un lato “negli Stati nordici la mescolanza di artisti e di opere alimenta e rinnova la produzione”, dall’altro “la loro dispersione rende difficile uno studio lineare che rispetti la cronologia e che segni l’evoluzione della pittura del trompe-l’œil nel XVII secolo”.
Al di là di queste preoccupazioni, va sottolineato che l’importanza del genere nel nord Europa non può prescindere dalla collocazione dello stesso all’interno di un’estetica fondata sulla percezione della concretezza. Un’arte dall’immediatezza descrittiva, dunque, che ricrea microcosmi quotidiani attraverso il riporto mimetico di oggetti usitati; un’estetica che si contrappone, ad esempio, alla narrativa cui era incline la tradizione francese ed italiana, secondo la quale la rappresentazione si poneva al servizio d’una riflessione, trasformandosi in strumento privilegiato per la scoperta di un mondo ideale. Ecco quindi la prevalenza assoluta dell’abilità tecnica, spinta spesso oltre i confini di un mirabolante virtuosismo, nel tentativo costante ed accanito di padroneggiare il reale ritracciandone i limiti.
Il tutto al servizio del principio che “gli oggetti selezionati dall’artista devono appartenere al registro delle cose ‘silenziose’, degli esseri inanimati. Per fare in modo che il soggetto del quadro sia percepito come vero e che riesca a illudere lo spettatore, il pittore deve scegliere un’iconografia adeguata alla natura statica del quadro, anch’esso oggetto e dunque parte delle cose immobili. Il quadro deve affermarsi come un’entità inerte. In tale tipo di dipinti, è la banalità del contesto a conferire maggior valore alla banalità del soggetto”.
La maestria di questi artisti li rende, quasi, “ingegneri della pittura”, con il rischio sempre incombente di un’estraniazione che vieta emozioni e percezioni individuali, e che suona come irrevocabile condanna all’anonimato. Un rischio a cui taluni sfuggono con veri e propri sotterfugi. Così, in “Tavola in legno con oggetti di scrittura” Wallerant Vaillant ci propone, a far capolino da sotto i consueti nastri inchiodati del pêle-mêle, lacerti della propria vita epistolare. Decrittare quelle lettere ripiegate e spiegazzate ci rivela l’identità dell’autore e persino quella dei suoi corrispondenti.
Anonimo o no, in ogni caso il trompe-l’œil affida il proprio successo – quasi una messinscena teatrale – alla risposta del pubblico. L’effetto illusionistico deve catturare lo spettatore, aggredirlo con la violenza sottile dell’inganno, stordirlo nell’immediatezza della percezione. La mano deve tendersi, d’istinto, a toccare, mentre il corpo si dichiara impotente a dominare una realtà sconvolta e sottosopra. Quando, nel 1651, Hans de Nassau dona a Ferdinando III “un’incisione inventata che sembra essere su carta e fissata con la cera a un pannello”, l’imperatore tenta di afferrarla tra le dita, ridendo poi di se stesso prima che “di questa frode piena d’artificio”. Grazie all’abilità del suo creatore-sortìlego, il trompe-l’œil ha la prerogativa però di sopravvivere all’effimero, di conservare intatte le proprie qualità magiche nel tempo, anche dopo la rivelazione del raggiro.
Un fascino, questo, che gli conferisce doti di surrealtà. Talvolta – si veda l’emblematico dipinto di Cornelis Norbertus Gijsbrechts, oggi al Museo reale di Copenaghen – “lo spettatore oscilla tra due tempi di percezione, irrimediabilmente ingannato: se l’esperienza gli insegna che il pêle-mêle è solo un’illusione, cosa significa la tenda che ricopre quasi la metà della composizione? Il riferimento a una realtà preesistente degli oggetti” osservano Faré e Chevé “a questo punto non è più pertinente. Non si tratta più di riprodurre, ma di produrre una realtà che abbia una vita propria, i suoi colori e il suo rilievo, la sua densità e il suo spessore. La sovrabbondanza e la dispersione degli oggetti sembrano farli partecipi di un’agitazione. Niente risulta meno familiare di questi elementi appartenenti al quotidiano, la loro banalità si trasforma in uno strano incantesimo”. Come scrive Pierre Charpentrat, “l’errore non consiste tanto nel ritenere gli oggetti ‘reali’, quanto nel crederli innocenti”.
Per altri versi simbolico portatore del charme ammaliante del surreale è il “Quadro voltato” dello stesso autore. La raffigurazione gelidamente essenziale del verso di un dipinto offre il paradosso della sottomissione assoluta di un’opera alla rappresentazione, dove un quadro è destinato per sempre a rimanere dentro un altro quadro, e dove oggetto e mimesi si fondono e si compenetrano. Il punto più alto, forse insuperabile, verrà raggiunto ancora dal Gijsbrechts, con un pezzo davvero sorprendente. Dopo aver realizzato un dipinto sul tema della “Vanità” – oggi custodito al Museo di Boston -, l’autore ne esegue una sorta di copia, inserita però tra gli elementi di un angolo d’atelier. Abbiamo cioè un trompe-l’œil dentro un altro trompe-l’œil, una doppia illusione, che ci fa riflettere moralisticamente sull’ubiquità della menzogna pittorica. Una trappola perfetta, uno specchio complesso dietro cui ci pare di intuire la vendetta ghignante e birbona di un geniale – ed a sua volta intrappolato – prestidigitatore della tavolozza. Una vendetta perpetrata anche a nome della categoria.
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