Matisse e il Codice Michelangelo
Individuati da Bernardelli Curuz
nel corso degli studi finalizzati
alla realizzazione della mostra
dedicata al pittore francese
gli elementi centrali
della ricerca matissiana
nel raccordo con il genio fiorentino.
Egli cercava forme eterne
che inducessero nell’uomo
la gioia di vivere
e favorissero lo slancio vitale
Eccole
di Maurizio Bernardelli Curuz
Il Codice Michelangelo arriva a Matisse nel momento decisivo della svolta, per risollevarlo, con le sue forme immani, da una laguna cromatica e formale, da un lieve senso di smarrimento che flagella l’autore francese il quale, già precocemente, sa di dover imboccare una propria strada, che non è quella dei post-impressionisti né quella del realismo. Egli cammina, ma il terreno non ha la saldezza della sua volontà.
Nella palude del rinnovamento galleggiano i colori densi, freschi e squillanti della recentissima stagione fauve, ma anche quelli precedenti, di qualche mese, della sua frammentata e frammentaria sperimentazione divisionista, avvenuta con Lusso, calma e voluttà (1904-1905), un quadro che si rivela troppo superficiale per gli intendimenti del giovane maestro, il quale si trova spiacevolmente di fronte – ad opera compiuta – a un dipinto reso inutilmente frenetico da luci non permanenti. E’ il fenomeno dell’instabilità luminosa a inquietarlo, provocando quel senso dolciastro di nausea causato dal cammino su terreni cedevoli o dalla permanenza su barche ormeggiate. Egli cerca di poggiare il piede sulla roccia, su qualcosa di cardinalmente eterno. Medita, a questo proposito: “Sotto il succedersi di momenti, che compone l’esistenza superficiale degli esseri e delle cose, rivestendole di apparenze mutevoli ben presto svanite, si può cercare un carattere più vero, più essenziale, cui l’artista si appiglierà per dare un’interpretazione più durevole della realtà”.
Come ci si può abbrancare a un lucore lieve e capriccioso, impressionista o post-impressionista; com’è possibile cercare il sostegno spirituale in una passeggera virgola di luce che freme nel cielo e che s’estingue? Al centro della palude multicolore, l’artista aggancia visivamente la solidità di un molo dai colori piatti ed eterni, il massiccio Gauguin (“Desideravo – dice – un’arte di espressione e di equivalenza, in fondo Gauguin era più indicato dei Neoimpressionisti per farmi fare un passo in questo senso”), portatore di un rapporto forma-colore basato sulla stabilità, e, più in là, una chiostra di piloni marmorei, quelli di Michelangelo. Piloni immensi sui quali possono stazionare frotte di cormorani e miriadi di gabbiani, con le ali aperte, per sprimacciarsi le piume.
Immaginiamo allora, lo sguardo di Matisse inquadrare, da lontano, le braccia del Prigioniero morente di Michelangelo, che s’innalzano dalla superficie dell’acqua, intrecciandosi come fiamme, accanto al volto compresso e sofferente del morituro. E più in gli òmeri torniti dell’Aurora o della Notte buonarrotiane, che comprimono i muscoli, per offrirsi, sul piano inclinato. Matisse intuisce che Michelangelo-scultore è portatore di un segreto legato alla sequenza di un codice vitalistico al quale è necessario ancorarsi per rilanciare l’esistenza nei termini della gioia di vivere. Tradurre i lemmi delle statue e delle sculture michelangiolesche significa penetrare, attraverso il segno artistico, fino al motore segreto del mondo, raggiungendo il crogiolo della vita. E’ questo il fine di Matisse; il quale non perlustra avidamente quadri e terre per maturare uno stile, sbocconcellando a destra e a manca, per rimasticare e digerire una grafia personale di rappresentazione, ma spazia con lo sguardo per trovare i piloni saldi e le costanti della forma, nei quali si concentra la potenza irradiante e magica dell’esistenza.
Quindi ecco il salto. Michelangelo tiene. E’ saldo sulle radici. Il suo codice formale riserva qualcosa di profondo e, all’apparenza, incomprensibile; una struttura sulla quale l’Occidente ha apposto, nei secoli, infinite incrostazioni culturali, sovrastrutture, orpelli, paraphernalia, luci ingannatrici così da renderne l’immagine essenziale quasi impercettibile. Il pittore francese ha ben chiaro di fronte a sé il concetto sciamanico dell’arte, che significa addentrarsi nella materia fino a ripercorrerne la Creazione. L’artista-sacerdos deve essere elemento di raccordo tra l’umano e il divino che sta contemporaneamente nell’uomo e nell’universo.
Dirà sulla funzione sciamanica dell’arte: “Se l’artista è dotato si va da lui, come alla fonte della vita”. Ora dobbiamo considerare questa breve dichiarazione come elemento fondante della poetica matissiana, come punto supremo di convergenza di tutte le apparenti – e sottolineo, apparenti – contraddizioni di colui il quale viene, a torto, considerato un pittore di complessa decriptazione, pur nella sua chiarezza. Nella fonte della vita – citata inequivocabilmente dal maestro – stanno gli archetipi, cioè le idee fondamentali, i pensieri primi, le forme platoniche, pitagoriche ed ermetiche che sono in grado di condizionare positivamente il mondo e di rilanciare la joie de vivre, il fuoco rosso dell’eros greco.
Abbandoniamo per un attimo i piloni del Codice Michelangelo al centro della palude – prima di stabilirne, seguendo opere e pensieri di Matisse, la vera natura semantica – per fare qualche passo indietro e imbatterci nell’immagine inquietamente composta di Matisse, negli anni della formazione. Solo così è possibile stabilire la centralità dell’incontro buonarrotiano. Matisse è un giovane pittore che matura, con grande rapidità, idee molto chiare sulla funzione e sull’oggetto della pittura, come dimostrano le prove accademiche nelle quali egli già, tanto nei dipinti quanto nella scultura, fornisce l’idea di una precisa attenzione strutturale, che lo porterà, nel volgere di qualche anno, a maturare un’autentica passione per Michelangelo. Il carattere stabile di una realtà da cogliere sottotraccia gli è suggerito inizialmente da Cézanne. La ricerca del Codice Michelangelo s’avvia, in Matisse, dopo che egli ha colto in Cézanne e – seppur parzialmente, seppur contraddittoriamente – in Gauguin, un antidoto che gli consenta di non essere ricettivo all’influsso della dilagante pittura di tocco e di luce. Cézanne è, infatti, struttura e geometria. E’quanto sta sotto il velo. Per questo Matisse giunge a una dichiarazione intellettualmente finissima: “(…) Cézanne non è impressionista. E’ un classico, perché siano bagnanti, la montagna Sainte-Victoire o altro, ha dipinto per tutta la vita lo stesso quadro. Vale a dire che le sensazioni di Cézanne sono quelle del tempo coperto”.
E’ proprio attraverso quella che appare come una marginale dichiarazione sul tempo coperto nell’opera di Cézanne, che Matisse rinnova, con la solennità di un rito, il proprio atto di fede nel principio di stabilità delle immagini profonde. Tempo coperto, infatti, significa luce diffusa, costante, priva di barbagli, scevra di scie che si rivelano come abbacinanti inganni visivi. Significa forme definite nella loro essenza. Il velo di Maya della luce instabile e fremente, che appare disteso sulle cose e sulle tele impressioniste, è totalmente alzato dal vento cézanniano e disperso, a favore della geometrica natura delle cose.
Già negli anni dell’apprendistato, Matisse punta allora a un lavoro anti-fotografico e anti-fenomenico, svolto tra pittura e scultura. Le statue che egli plasma sono fondamentali per cogliere la struttura profonda della figura umana, cioè, per usare le sue parole, “vedere più in là”. Una scoperta che emerge rapidamente dalla sua ricerca, negli anni in cui frequenta le lezioni di nudo, è il rapporto tra tensione e rilassatezza dei muscoli. “Un dettaglio infimo – testimonierà Matisse – può rivelarci un grande meccanismo, un ingranaggio essenziale di vita”..
Ma che significato assume questo contrasto? E quale funzione ha nel codice della vita? L’individuazione di una bipolarità nella figura è un’intuizione fondamentale, che lo porterà ad indagare presto in direzione di Michelangelo, nel quale nota immediatamente una tensione vitalistica, una contrapposizione risolta nell’unità splendida dell’immagine umana.
E ora torniamo alla palude della ricerca. Matisse capisce che deve compiere un salto, abbracciando i piloni buonarrotiani. Il pittore francese osserva Michelangelo ben prima di compiere il noto viaggio a Firenze (1907). Già nella Joie de vivre (1905-1906), cioè il primo lavoro della maturità espressiva, sono riscontrabili figure che rinviano strutturalmente all’osservazione della Notte, dell’Aurora, del Ragazzo accovacciato – accoccolato, ad uovo, tra dolore e potenza -, del Prigioniero morente, con le sue braccia di fiamma. Con i disegni, Matisse scortica ulteriormente Michelangelo, ne toglie i pur ridotti elementi epidermici per giungere alla quintessenza del Codice buonarrotiano. La scorticatura grafica è riferita, in chiave allegorica, in una ben nota dichiarazione del maestro francese:“Si potrebbe far rotolare una statua di Michelangelo dall’alto di una collina fino a far scomparire la maggior parte degli elementi di superficie: la forma rimarrebbe comunque intatta”. Cosa significa tutto ciò? Che la cancellazione di ogni particolare di superficie, considerato fenomenico e accidentale, non riduce l’importanza del lavoro scultoreo di Buonarroti, che esprime la potenza vitale in virtù della propria struttura.
L’individuazione del Codice Michelangelo non induce Matisse ad assumere lo stile del titano fiorentino – egli, infatti, rifugge l’influenza stilistica d’ogni collega, a favore della purezza del proprio linguaggio -, ma gli permette di capire e di fare proprio, disegno dopo disegno, il motore nascosto della vitalità espressa nelle opere scultoree di Buonarroti.
E veniamo al contenuto di quel canone espressivo, seguendo la scoperta matissiana. La Notte delle Tombe medicee è una donna distesa su un piano inclinato. Le masse muscolari sono contrapposte. La postura è identica a quella di un quadro perduto, realizzato dello stesso autore, Leda e il Cigno. Il cigno – come dimostrano le copie coeve – possedeva carnalmente Leda che aveva la stessa posizione della donna rappresentata nella scultura allegorica. Ciò significa che, pur in assenza del cigno, la postura della statua medicea rinvia a un abbandono e, contemporaneamente, a un movimento in potenza, che rivela il meccanismo eternante dell’eros come slancio vitale.
Il rapporto tra rilassatezza e tensione, tra languido abbandono e movimento in potenza, il contrappeso tra arti contrapposti, che si rilassano e si tendono seguendo una X ideale, conferiscono ai dipinti e ai disegni che nascono dal confronto con Michelangelo una vitalità estrema, inesausta, una carnalità evidente seppur concentrata e idealizzata. Ma il codice visivo contiene altre verità: ogni figura della statuaria michelangiolesca, dal Ragazzo accovacciato al Prigioniero morente, è connotata da una situazione di apparente passività. Dall’abbandono della Notte e dell’Aurora si transita a una condizione di dolore o di passaggio fatale alla morte. Ciò nonostante, dal nucleo dell’abbandono, ecco scattare, muscolarmente, una reazione, una scarica elettrica indirizzata alla continuità dell’esistenza. Il contrasto tra calma e azione, tra dolore e ribellione sviluppa una fiamma, la fiamma della vita, la reazione di una fonte inesausta. Matisse coglie la forma semplificata, archetipa, di questo procedere per contrasti. Essa è la formula più dolce, violenta e sensuale ad un tempo. Il lusso, la calma e la voluttà emergono in modo inequivocabile anche da scene drammatiche, come nella buonarrotiana Battaglia dei centauri, che a Matisse rievoca una danza.
Michelangelo fornisce elementi inequivocabili per la rappresentazione dello slancio vitale, poi teorizzato da Bergson. Si manifestano allora punti di contatto tra la ricerca svolta da Matisse e le teorie del pensatore, che rappresenta il punto conclusivo del movimento spiritualista francese. Per il pittore e per il filosofo l’essenza dell’universo e della realtà è l’élan vital (cioè l’eros di Platone), un’energia che dà la vita. Nelle opposizioni muscolari delle statue di Michelangelo è ben presente questa tensione, che si risolve in un’unità armonica delle parti: del morbido e del ruvido, del rilassato e del contratto, del leggero e del pesante, del dolore e della felicità, dell’abbandono e della reazione. Gli opposti sono uniti da un amore cosmico, che attraversa la carne, lo spirito e la pietra, trasformando il contrasto in energia e facendo scaturire dal marmo un soffio vitale.
L’armonia delle tensioni – e ricordiamo anche la valenza fondamentale della contrapposizione tra la leggerezza dei pesci, in numerosi dipinti e disegni matissiani, e una modella, generalmente in abbandono – viene assunta dal pittore attraverso la realizzazione di forme semplici, realmente quintessenziali, che siano in grado di svolgere una funzione di immagini agentes, cioè di figure capaci di proiettare sull’uomo, come nei dipinti e nelle decorazioni del passato remoto, la protezione e la fiducia nella vita. Matisse traduce i lemmi del codice Michelangelo, presenti nelle statue del maestro toscano, lavorando disegno dopo disegno, per comprenderne le formule nascoste. Afferra che la vera sezione aurea della vita sta nella sintesi delle contrapposizioni. Il grande passaggio alle gouaches decoupées – che risolve almeno cinquecento anni di dibattiti sulla superiorità della pittura o della scultura – fornisce al maestro la possibilità di produrre forme che irradiano gioia.
Pittura e scultura, per Matisse, debbono svolgere un’azione terapeutica in direzione della pienezza dell’esistenza. “Sogno un’arte di equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza soggetti inquietanti o preoccupanti – dice. – Un’arte che sia per ogni lavoratore intellettuale, per l’affarista, come per il letterato, ad esempio, un lenitivo, un calmante cerebrale, qualcosa di analogo a una buona poltrona dove riposarsi delle fatiche fisiche” . Per continuare poi: “E’ quanto dissi 25 anni fa sulla Grande Revue: ‘La pittura dev’essere un lenitivo per il cervello stanco dopo la giornata di lavoro di un uomo d’oggi’”.
Attraverso il magico contrasto delle forme e dei colori si è persino in grado di produrre un’energia psichica e percettiva che si trasforma in luce*.