“Nerone – scriveva Plinio il Vecchio – aveva commissionato il suo ritratto in dimensioni colossali su una tela di 120 piedi, fatto totalmente inaudito fino a quel tempo. Questa pittura ultimata e poi esposta nei giardini Maiani fu colpita dal fulmine e arse con la parte migliore dello stesso spazio verde”- La sfida di Nerone al cielo fu perduta. E’ inutile dire che tra le righe, Plinio il Vecchio leggesse la distruzione del dipinto da parte di un fulmine – fatto assai raro, dobbiamo ammetterlo – lascia intendere che lo spropositato e orribile culto della personalità – che trova eguali, nella storia in Hitler, Mussolini, Lenin, Stalin e Mao e nei loro ritratti colossali – fosse fortemente sgradito a Zeus e agli altri celesti oligarchi dell’Olimpo.
E’ interessante sottolineare che l’episodio viene narrato da Plinio il Vecchio poco dopo i fatti, nonostante rimarcasse una distanza di tempo psicologicamente siderale, come se Roma avesse tentato di seppellire rapidamente i tempi di Nerone, che era nato ad Anzio nel dicembre del 37 ed era morto nella capitale, nel giugno del 68.
Plinio il Vecchio – Como, 23 – Stabia, 25 agosto o 25 ottobre 79 – che aveva 14 anni più di Nerone, visse quei giorni e quelle ore.
Il livello tecnico raggiunto dalla civiltà romana, al di là dei disvalori della violenza e della sopraffazione – che parevano indispensabili per mantenere unito un impero mostruosamente ampio – fu notevole. E, per quanto in parte idealizzati, forme e contenuti di quella civiltà furono oggetto dell’ammirazione degli intellettuali e degli artisti italiani del Quattrocento e del Cinquecento che trovarono nei libri e nei materiali artistici di quel passato lontano la testimonianza che la rappresentazione lineare della storia – come un progresso costante, nel passaggio delle generazioni – è, a volte, illusoria.
Alcuni insegnamenti, nel campo artistico, furono tratti da Vitruvio e da Plinio. Plinio, al di là del suo enciclopedico viaggio nella storia naturale, offre anche un interessante testimonianza sulle pratiche artistiche nel mondo classico, dalle origini greche alla prassi romana a sé contemporanea. Dal suo lavoro emerge che:
I quadri da cavalletto erano realizzati su tavole, ma che già ai quei tempi, probabilmente per le opere di maggiori dimensioni, si ricorreva, appunto, alla tela
I materiali erano costituiti soprattutto da metalli, ossidi – di ferro, di piombo, di rame eccetera – minerali e, in misura minore, elementi organici. Per quanto concerne i leganti non è escluso che, già a quell’epoca, accanto all’acqua – tempera – o alla cera liquefatta – encausto – e ai diluenti tratti dalle conifere, si facesse uso, per ottenere i massimi effetti realistici, dell’olio. La nascita della pittura ad olio si ascrive più di 1300 anni dopo ai fiamminghi, ma fu probabilmente solo una riscoperta, per quanto fondamentale.
L’encausto tout court non era praticato normalmente nelle abitazioni – dove si ricorreva, probabilmente, alla pittura a secco, poi finita con cera o all’affresco – ma sulle barche e sulle navi, dove resisteva per lungo tempo.
Esisteva la vernice finale che aveva lo scopo di aumentare il realismo del dipinto – uniformandone le parti – di attenuare i colori troppo accesi – non molto amati, sotto il profilo artistico, da Plinio, e, presumiamo, dagli altri Romani -. Per questo si usava l’atramentum, un composto basato buona parte sui bitumi (cfr il nostro link http://www.stilearte.it/atramentun2/)
Gli artisti ponevano spesso il nome sulle proprie opere e questo non solo per orgoglio personale – che era molto acuto, secondo i racconti di Plinio – ma anche per una forma pubblicitaria.
Il collezionismo era spesso compulsivo e folle. Oggetto delle raccolte erano soprattutto i pittori greci dell’antichità. Oltre a collezionare opere antiche di grande qualità – Plinio sottolinea una decadenza della pittura a sè contemporanea – i politici amavano farsi ritrarre e offrire grandi e sorprendenti immagini del proprio volto e del proprio corpo.
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