Le fotografie del servizio, courtesy Parco archeologico di Pompei
La vita bloccata dai lapilli d’eruzione del ’79 riemerge in un continuo susseguirsi di istantanee. Ora appare alla vista, dopo gli scavi, anche un laboratorio portatile di un pittore che stava affrescando – o si accingeva a farlo – alcuni ambienti della cosiddetta Casa della Biblioteca, probabilmente danneggiati dallo sciame sismico degli anni precedenti. Pompei viveva, in quei mesi, una sorta di Recovery.
Il pittore, naturalmente, abbandonò i pesanti vasi e piatti per la preparazione dei colori e si diede alla fuga. Naturalmente non è possibile sapere se egli sia stato tra le vittime delle ore successive, ma ciò che emerge è il suo kit, bloccato per quasi duemila anni. Quello che è rimasto e il contesto dell’incipiente cantiere pittorico farebbe pensare che il pittore fosse un artigiano con competenze artistiche. Non è escluso il fatto che egli fosse stato chiamato per un restauro pittorico.
Nell’Insula occidentalis – luogo nel quale è avvenuta la scoperta, durante lavori di messa in sicurezza degli edifici – sono infatti numerosi gli affreschi, i mosaici, gli arredi ancora presenti che costruiscono uno spazio dai quali emerge il piacere del vivere e il lusso quotidiano; spazi immersi in una raffinata bellezza fatta di pitture dai colti riferimenti letterari o che rappresentano lussureggianti giardini aperti sulla vallata dove il fiume incontra il mare; mosaici pavimentali con marmi colorati provenienti da diverse regioni dell’impero arredavano gli ambienti, mentre spettacolari giochi d’acqua arricchivano le sale da pranzo all’aperto.
Il pittore aveva portato nella domus un disco di pietra lavorato che formava la base per un piccolo mortaio e un vaso di bronzo o di rame, un’olla. Questi oggetti erano stati depositati nell’atrio di una stanza.
“Il disco di pietra, perfettamente circolare e dalla superficie finemente levigata – spiegano gli studiosi del Parco archeologico di Pompei – conserva ancora un piccolo cumulo di frammenti di pasta vitrea pronti per la molitura che era necessaria alla produzione del famoso pigmento Blu Egizio, la cosiddetta Fritta egizia utilizzata per il blu/azzurro degli affreschi; dalla parte opposta della soglia dell’apertura che metteva in comunicazione il vasto ambiente voltato con la terrazza antistante –splendidamente affacciata sul Golfo di Napoli – un’olla in rame reca al suo interno un piccolo crogiuolo di ferro che probabilmente era utilizzato per la cottura degli ossidi nel processo di produzione dei pigmenti. Entrambi i reperti sono stati ora trasferiti ai laboratori del Parco per procedere alle analisi dei loro contenuti”.
La Casa della Biblioteca fu scavata per la prima volta nel 1759 in una zona allora denominata Masseria Irace (nella topografia pompeiana individuata come Regio VI, Insula 17, Civico 41). La domus fu detta della Biblioteca dallo studioso Volker Michael Strocka, che identificò con quella funzione uno degli ambienti interni che ancora oggi reca uno splendido affresco della parete centrale con la raffigurazione del poeta ditirambico greco Filosseno di Citera, vissuto nella seconda metà del V secolo a.C..
Gli apparati decorativi della domus furono oggetto, negli anni, di numerose sottrazioni con lo stacco di affreschi e mosaici oggi custoditi al Museo Archeologico di Napoli; dopo il bombardamento del 1943 e il parziale reinterro, la casa fu di nuovo oggetto di scavi solo parziali negli anni Settanta del Novecento, durante i lavori di restauro dell’adiacente Casa del Bracciale D’oro.