[C]aroline, moglie di Caspar David Friedrich, è immobile alla finestra, intenta a scrutare il paesaggio che le si dischiude dinnanzi, carica di quella indolente malinconia tanto cara al romanticismo. Un’istantanea che diviene icona del quotidiano e che sarà ripresa, seppur con modalità e intenti diversi, da Magritte, Dalí, Hopper e molti altri. Percorrendo a ritroso la linea del tempo, però, ci si rende conto che, prima del XVIII secolo, rare sono le immagini di donne alla finestra, in particolare nel periodo compreso tra Quattrocento e Seicento.
Essendo spesso la pittura uno specchio fedele della realtà, per decifrare le motivazioni di quest’assenza è necessario conoscere le singolari norme di comportamento che governavano l’agire nel periodo. “Nell’Italia del Rinascimento – spiega Diane Wolfthal nel saggio La donna alla finestra: desiderio sessuale lecito e illecito nell’Italia Rinascimentale – la finestra era considerata uno spazio di forte carica erotica sia per le prostitute sia (in alcuni momenti di transizione) per le donne ‘per bene’”.
Come conseguenza di un’ondata di moralismo che permeava tutti gli strati della società, alle donne era stato imposto di vivere in modo morigerato, ritirate, evitando di fare notare ai passanti le proprie forme e preservando così la propria virtù, alla stregua di novelle Lucrezie. Un giro di vite strettissimo per le monache, costrette ad una rigida clausura, e per le laiche, che avrebbero dovuto permanere nelle abitazioni, senza attirare l’attenzione di estranei.
Una vita conchiusa, condotta celandosi all’interno dei palazzi: ecco il prezzo per mantenere salva la reputazione. Questa separazione avveniva nelle chiese, nei conventi e nelle case. Ricorda la studiosa che “una funzione comune degli edifici consisteva nel dividere donne e uomini. (…) Un modo per garantire l’onore di una donna e, per estensione, della famiglia, consisteva nell’evitare che gli estranei la vedessero. (…) Paolo da Certaldo ammoniva ogni giovane donna di imitare la Vergine e ‘stare rinchiusa e serrata in nascosto e onesto luogo’”.
Persino Leon Battista Alberti scrive nei Libri della famiglia che è necessario che si “difenda la donna serrata in casa”. E i pittori si adeguano, raccontando questa realtà. E’ così che per tutto il Rinascimento le donne non sono dipinte affacciate alla finestra. Solo raramente compaiono sullo sfondo, poggiate sui corrimano di balconi o loggiati, mera parte della scenografia, come testimoniano, tra gli altri, gli affreschi di Paolo Veronese. Le mura domestiche divengono emblema della verginità e le sue aperture – porte e finestre, appunto – simbolo dell’accesso al corpo femminile, tant’è che era uso, per infangare l’onorabilità della “matrona” o di una figlia, insudiciare gli ingressi degli edifici.
Tale concezione maschilista ha effetto anche sull’iconografia religiosa. Beato Angelico e Domenico Veneziano, per esempio, rappresentano la stanza di Maria ermeticamente chiusa, con le finestre sbarrate, le porte sprangate e alte mura di cinta, a simboleggiare la purezza della madre di Cristo, una sorta di evoluzione del concetto di hortus conclusus, recinto sacro di ispirazione adamitica. “La finestra diviene allora confine tra due mondi, sorta di linea invalicabile, né dentro né fuori”, continua Diane Wolfthal.
Tutto questo insieme di proibizioni, convenzioni, obblighi, se da una parte restringeva il campo d’azione delle “donne perbene”, apriva alle prostitute infinite possibilità di rappresentazione della concessione di sé. Le meretrici, infatti, fecero delle finestre il loro campo d’azione privilegiato. Ecco allora il fiorire fecondo di stampe, incisioni, frontespizi, dipinti, che rievocano tale usanza.
Un anonimo pittore del XVI secolo raffigura in un acquerello una giovane prosperosa che si sporge dalla finestra e invita un nobile a salire nella sua alcova. Quest’ultimo, che ricambia lo sguardo, stringe già il batacchio della porta tra le mani, pronto a superare i gradini che lo separano dal piacere.
Nel frontespizio della Vita del lascivo, un viandante offre, in pieno giorno, un fiore ad una donna su di un balcone. Lei è vestita in modo discinto, un’anteprima dei dolci momenti che giungeranno. Attorno, i passanti attraversano la scena come se nulla fosse, dimostrando che questa situazione era la norma e non l’eccezione.
Le “donne per bene” potevano liberamente mostrarsi alla finestra soltanto in alcuni periodi, ma con un abbigliamento che ne denotasse la condizione sociale e che evitasse ogni fraintendimento. Quando raggiungevano l’età da matrimonio, alle giovani era concesso di affacciarsi sulla pubblica via, per essere ammirate dai pretendenti. I davanzali divenivano allora meta di pellegrinaggi d’innamorati, luogo di serenate e di fugaci incontri, come testimonia il Ritratto di una donna con un uomo al davanzale di Filippo Lippi.