di Roberto Gramiccia
[G]offredo Parise scrisse una volta che Schifano somigliava a un puma. Raul Gabriel anche somiglia a un felino, direi a un grosso gatto. Così – con le movenze di un felino – me lo ricordo in azione, con il collo di una birra stretto in una mano e il copricapo di lana calato fin sugli occhi, a realizzare una installazione site specific dedicata alle morti bianche a Spinaceto, un quartiere periferico e degradato di Roma. Era venuto da Londra per fare questa cosa che gli avevo chiesto. E ciò la dice lunga sul suo temperamento e la capacità di infiammarsi quando una proposta lo convince.
Raul Gabriel è un artista globale, un ricercatore professionale di immagini che traggono spunto dal degrado delle periferie delle metropoli del mondo, dal trash delle civiltà dei consumi (e dei rifiuti). La grazia del suo lavoro prende origine, come per miracolo, dalle situazioni estreme di sofferenza.
Di sofferenza mentale e psichica ma anche di sofferenza fisica. Quella di Raul è, infatti, una clinica dell’estetica. Sangue, nervi, muscoli, organi, strutture e funzioni abitano le sue opere come se queste ultime fossero trattati di anatomia e di fisiologia. Anzi, di anatomia patologica e di fisiopatologia. Perché, se la vita è stata sempre sofferenza, oggi è più sofferenza di sempre situandosi al di fuori di una prospettiva fornita di senso.
Le metropoli senza senso del contemporaneo sono il teatro naturale dell’investigazione drammatica di un artista che legge il proprio tempo ed aspira a cambiarlo. L’arte di Raul non è rivoluzionaria perché tenta di modificare gli equilibri delle forze in campo. Non ha quindi una prospettiva politica in senso stretto. E’, piuttosto, politica nell’accezione più ampia del termine, di etica della polis, di processo che avvicina alla verità e denuncia la menzogna.
Il padre di Raul Gabriel lo trovarono morto, ancora attaccato ai remi della piccola imbarcazione che doveva salvarlo, dopo il naufragio di una carretta del mare sulla quale lavorava. Morì insieme a un compagno di sventura, e quella morte condizionò il futuro del figlio in ogni senso. Nel senso della disperazione ma anche nel senso del riscatto.
Raul – non poteva essere altrimenti – ebbe un’infanzia difficile. Fu cresciuto in casa di parenti, perché la madre, dopo quella botta, non si riprese più. Dall’Argentina, dov’era nato (suo padre era italiano), cominciò a girare il mondo. Arrivò a Londra. Conobbe la durezza dei quartieri degradati della città. Fu curioso di tutto. E si accostò alla musica sperimentale. Casinista dapprima, come non può non essere chi è organico alla vita estrema delle periferie urbane del mondo, fatta di asfalto, di semafori, di sballi, di alcol, di violenza, di gente che dorme per terra, di freddo e di caldo, di caos fisico e morale; di questo magma incandescente, di questa lava Raul è diventato col tempo un moderno poeta. Uno che sa tirar fuori la misura dei greci antichi anche dai sacchi della spazzatura o da scooter squagliati per metà o dalla sinfonia cromatica di semafori, ready made, che dettano i tempi dei flussi urbani e suburbani.
Una notte, Raul fu colpito dalla psichedelica ipnosi prodotta da una strada punteggiata di semafori luminosi a intermittenza e, da allora, il semaforo diventò il simbolo di una dimensione esistenziale che fa i conti con le forme estreme della modernità.
Raul dev’essere forte per necessità, se no non potrebbe fare il ricercatore visivo, spostandosi da Londra a Milano a Berlino a Roma e seguendo unicamente il suo istinto e la scuola della strada. Questa forza riesce a ritrovare momenti di disciplina formale inaspettata. E’ così che nascono dipinti struggenti distesi su superfici piane di gialli acidi, di neri su nero, di bianchi su bianco, di verdi e di rosa. Le forme che si schiudono su queste campiture piatte sembrano alludere a geografie del dolore aperte sulla superficie della tela, coaguli, scolature, gocce, guizzi, improvvisi bersagli o mirini a croce, righe sottili, enigmatici radar.
Insomma, un armamentario grafico-segnico e cromatico che parla di astrazione ma va oltre l’esperienza estinta dell’Informale. Come se, a partire da quell’esperienza, assunta quasi per osmosi, Raul avesse maturato una conoscenza fatta, però, non di idee ma di strutture viventi, organi e organuli, una specie di animale, antropomorfica consapevolezza. Raul è la dimostrazione vivente che non esiste separazione fra anima e corpo, fra spirito e materia, fra sporco e pulito, fra bello e brutto.
Ma la novità più grossa è che questa struttura vivente della pittura aniconica tradizionale ha subito, dopo essere penetrata nell’artista per osmosi, una mutazione. E’ così che si creano in biologia nuove linee di sviluppo. Per motivi casuali, ma pur sempre riconducibili ad un’alterazione genetica, cromosomica. Anche queste alterazioni non si determinano per ragioni metafisiche. E’ il caso che le produce, ma attraverso gli strumenti fisici e ambientali che la realtà mette a disposizione.
Ebbene, viene naturale pensare che la dura pratica della vita adulta e la difficilissima infanzia di Raul abbiano contribuito a provocare una mutazione nel suo modo di dipingere. Insomma, è la pittura, un certo tipo di pittura, che si è impadronita di Raul, e non viceversa. Lui ha avuto il merito di rendersi disponibile, di rimanere in ascolto, di farsi trovare. Perché poi questa è la sua qualità principale: non sottrarsi, esserci, interagire, coagire, formare e trasformare, rigenerare.
E’ una grande compassione quella che sta alla base di tale atteggiamento di apertura. Mi viene in mente il cristo-uomo che lentissimamente, in un suo video, allarga le braccia per accogliere e capire, per capire accogliendo, mentre si celebra il rito del Golgota.
Che tutto ciò avvenga ad una velocità molto sostenuta e con esiti eccellenti è una cosa che dipende dal fatto che, vivendo come lui vive, non si può essere lenti, non si può essere lievi. Ma nel volto di quest’artista, poi, non c’è solo durezza. Anzi, a volte si indovina uno sguardo come di bambino, una dolcezza che sembra quella di un essere indifeso. Se Raul si accorge che, tale sguardo, tu lo hai colto, si tira il cappuccio sin sugli occhi, come fanno i rapper, e se ne va.
Di recente a Perugia la Galleria Armory di Carla Berioli ha fornito un’occasione felice di sosta ai viaggi di Raul. Colorenoncolore era il titolo della personale presentata, che offriva all’attenzione dei visitatori una vasta gamma di opere pittoriche, distese su supporti diversi, scanditi o no dalla ritmicità dei polittici. Il tema guida espresso dal titolo intendeva delimitare i confini di un’esplorazione che, partendo dalla dialettica nero-bianco, si apre a squarci inattesi, capaci di sorprendere i colori come flash. Questi colori squillano acidi, senza impedire – tuttavia – l’emergere di ampi brani di pittura su cui si allarga la stasi riflessiva dei bianchi su bianco e l’ozio sapiente dei neri su nero. A volte dei fiori mutanti spuntano… ed è come un giardino.