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“Stile” ha intervistato Anna Bozena Kowalczyk, ricercatrice presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia che curò, insieme a Ger Luijten ed Erik Hinterding, la mostra”Rembrandt. Dipinti, incisioni e riflessi sul ’600 e ’700 italiano”, realizzata in collaborazione con il Rijksmuseum di Amsterdam.
Prima di addentrarci nei contenuti dell’esposizione, le chiediamo se ci sono nuove scoperte relativamente alle opere di Rembrandt, ed in particolare alle sue incisioni.
Le acqueforti di Rembrandt sono stato oggetto di studio sin dalla sua epoca, e il primo catalogo generale delle incisioni risale addirittura al 1751, ad opera di Gersaint, e basato su di una completa e importante collezione confluita successivamente nel Rijksmuseum. Dal tardo Ottocento, inoltre, gli studiosi hanno intensificato gli sforzi per distinguere le incisioni autografe da quelle degli allievi e per ordinarle cronologicamente. Cosa non sempre facile, poiché solo alcune di esse sono datate: ma i nuovi metodi di indagine a raggi x hanno consentito di individuare la filigrana delle varie impressioni su carta permettendo di datarle con precisione. Si è così scoperto che Rembrandt ritoccava le stesse lastre anche a distanza di anni. Un’indagine importantissima per capire le fasi di lavoro dell’artista e l’evolvere della sua creatività. Egli passava infatti da semplici tratti abbozzati ad effetti di chiaroscuro quasi pittorico, che tanto affascinavano i contemporanei. Esemplari in questo senso sono i tre stadi del “Cristo davanti a Pilato”, esposti in mostra, preceduti – come usava fare spesso Rembrandt – da uno schizzo ad olio, documentato in catalogo, e i due stadi della “Grande sposa ebrea”, sempre in mostra, o ancora la serie dei “Ritratti della madre”, in cui il segno si addensa sempre più in alcuni punti, contrastando con i fondi volutamente bianchi per una stupefacente resa plastica del volto.
Parliamo ora della personalità dell’artista. Fu grande cultore dell’antichità e collezionista, sia pure un po’ sui generis; non è così?
Sì. Possedeva armature, vecchi strumenti, acconciature, stoffe ricamate e, come riporta l’Algarotti, sosteneva che quelle erano le “sue antichità”. Ma Rembrandt aveva soprattutto una collezione di calchi dall’antico e di marmi classici a cui si ispirava per le pose dei suoi personaggi, creando un’originale commistione tra lineamenti fiamminghi e pose “alla romana”. Caso esemplare è il quadro “Uomo con armatura” dalla City Art Gallery di Glasgow, o, tra le opere esposte, il disegno “Busto di un imperatore romano” dalla Biblioteca Reale di Torino.
Veniamo allora alla mostra, che documenta tutti i generi esplorati da Rembrandt come incisore e come pittore. Può illustrarci il percorso e farci qualche esempio importante?
La mostra si articola in un percorso cronologico incentrato sui diversi temi delle incisioni, che sono un nucleo di eccezionale qualità per varietà di generi e per la tecnica. Vi sono ritratti dei genitori, quelli di uomini importanti di Amsterdam, predicatori, medici, politici… e poi numerosi autoritratti, alcuni preziosissimi perché ritoccati a mano dall’artista. Tra i più singolari vi è quello in veste di mendicante: ennesima identificazione di Rembrandt in personaggi afflitti ma in cui traspare un’espressione di sfida e di beffa nei confronti del destino. Non mancano poi le tante e varie figure femminili e le ultime grandi opere con soggetti religiosi, tra cui l’“Ecce Homo” e “Le tre croci”. Pregiata è altresì la carrellata dei dipinti che consente di spaziare dai giovanili “Riposo durante la fuga in Egitto”, della National Gallery di Dublino (1626), e “Autoritratto in costume orientale”, del Petit Palais di Parigi, al maturo “Autoritratto” della National Gallery di Washington; simbolo quest’ultimo della mostra, con il noto volto sofferente del pittore.
In effetti egli perseguiva l’imitazione ma anche l’interpretazione della natura vivente, e aveva un “culto” speciale per i particolari…
…e ciò si vede molto bene nei nudi femminili. Figure decisamente anticlassiche e “messe a nudo”, nel vero senso della parola, nelle loro forme naturalisticamente imperfette e con i capelli fluenti dietro le spalle. Sono donne indagate nei particolari anche quando vestite, come nel caso dell’“Artemisia” del Prado.
Che cos’erano le cosiddette “teste di carattere”, con cui Rembrandt ottenne tanto successo?
Le “teste di carattere” sono ritratti dal vero, spesso raffiguranti il padre, ma completate con espressioni insolite e arricchimenti di fantasia: vesti orientali, barbe lunghe, copricapi. In mostra ci sono diverse stampe del genere e il “Ritratto d’uomo in costume orientale” dal Rijksmuseum, che anticipa il gusto esotico della pittura veneziana del Settecento.
La mostra documenta altresì l’influsso del genio olandese su artisti italiani come Tiepolo, Piazzetta e Castiglione. Rembrandt era decisamente stimato in Italia; e a sua volta – anche se non vi si recò mai di persona – attinse non poco a grandi maestri come Caravaggio e i Carracci. Ci sono opere esposte in cui è possibile leggere tali reciproche influenze?
I collegamenti sono evidenti in tutta la mostra. Rembrandt conosceva molto bene la pittura italiana, grazie gli insegnamenti del suo primo maestro a Leyda e all’influenza dei caravaggisti attivi ad Utrecht. Non bisogna poi dimenticare che i rapporti commerciali tra l’Olanda e Venezia agevolavano la diffusione al nord della pittura di Tiziano e Palma il Giovane, senza tralasciare la circolazione di stampe di Mantegna, Campagnola, Carracci, Tempesta, Barocci… Ecco allora che in opere come i già citati “Riposo durante la fuga in Egitto” o “Artemisia” si ritrovano rispettivamente i paesaggi notturni con squarci di luce alla maniera del caravaggista Adam Elsheimer e l’influsso di Tiziano, il cui stile “rozzo”, fatto di pennellate violente, dell’ultima maniera, venne emulato da Rembrandt nella “Mater dolorosa”. Nella mostra tre sale intere sono invece dedicate all’influenza dell’artista sugli italiani. Nella sua vita, egli si spostò solo da Leyda ad Amsterdam, ma da lì riuscì ad irradiare la sua grandezza in tutta Europa. Divenuto famoso – godeva persino del giudizio favorevole dell’uomo di cultura più importante nel suo Paese, il segretario del principe Federico, Enrico d’Orange – le sue opere erano vendute all’estero e divulgate tramite le incisioni degli allievi, che spesso venivano in Italia.
Il sommo Castiglione, tra gli incisori più dotati, rimase subito affascinato dall’arte di Rembrandt. Nel corso del Seicento, tuttavia, erano ancora poche le opere del maestro presenti da noi: quattro dipinti nella collezione del principe Antonio Ruffo a Messina, e a Firenze l’“Autoritratto” acquistato da Cosimo III Medici durante il suo viaggio ad Amsterdam, che ora si trova agli Uffizi, insieme ad un altro proveniente dalla collezione Gerini. Quadro, quest’ultimo – esposto alle Scuderie -, che è attualmente oggetto di una discussione interessante: secondo gli studiosi olandesi si tratta infatti di una figura di fantasia e non di un autoritratto. Ad ogni modo, il secolo di grande influenza di Rembrandt fu il Settecento, e lo fu soprattutto a Venezia, dove i generi da lui trattati erano già diffusi. Ecco allora che tra i capolavori in mostra vi sono il “Giovane con turbante” di Giandomenico Tiepolo, ispirato alle “teste di carattere”, un’incisione con “Autoritratto” del Piazzetta e incisioni di Piranesi, che tanto assimilò della tecnica del maestro olandese.
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