di Flavio Caroli
[S]ofonisba Anguissola e Fede Galizia, ovvero: due vite contrapposte. Queste due grandi artiste lombarde attive tra Cinque e Seicento sono infatti così diverse tra loro – per storia personale e temperamento – che più non si potrebbe immaginare.
Sofonisba nasce attorno al 1532 a Cremona, in una famiglia della piccola nobiltà locale. Figlia primogenita di Amilcare Anguissola e Bianca Ponzone, è avviata alla pittura giovanissima (già nel 1546 risulta allieva di Bernardino Campi). Sotto la sua guida – e più tardi ancora con Campi -, pure la sorella minore Lucia diviene valente pittrice: il Vasari, ad esempio, la riteneva non inferiore a Sofonisba. Del talento di quest’ultima dovette ben presto essersi reso conto Amilcare, se è vero che ebbe l’improntitudine di scrivere addirittura a Michelangelo per richiedergli alcuni disegni da far… colorare alla promettente figlioletta (una richiesta che, se fosse andata in porto, avrebbe dato corpo al più prezioso strumento didattico della storia). La fama della giovane cremonese si sparge in fretta ben al di fuori dei confini della città bassaiola; fin quando arriva l’invito a recarsi a Madrid, alla corte di Filippo II. Nella capitale spagnola Sofonisba Anguissola entra nelle grazie della regina, di cui diviene prima dama di compagnia. Intraprendente ed estroversa, chiede di sposarsi: le propongono un partito locale, che rifiuta, “esigendo” un italiano. La scelta cade su un nobile siciliano, il principe Moncada. Stavolta accetta, e parte per Palermo, dove vede per la prima volta il suo promesso, a cui poco dopo si unirà in matrimonio. Ed ecco scoppiare il dramma: durante un viaggio per mare, Moncada viene trucidato dai pirati che, al largo di Capri, assalgono la nave che lo trasporta. La vedova decide di rientrare a Cremona: e sarà proprio nel corso della traversata che s’accenderà la scintilla di un nuovo amore, quello per il capitano del veliero, Lomellini. L’inesausto peregrinare di Sofonisba la porta dapprima a Genova, quindi – ancora – a Palermo. Qui, negli anni Venti – ormai vecchissima: morirà, quasi centenaria, nel 1626 – la incontrerà il poco più che ventenne e frizzantino Van Dyck, che la ritrarrà in un disegno, accompagnato da questa postilla: “Ho imparato più da questa novantenne cieca che dai miei contemporanei”. La raccomandazione al giovane fiammingo da parte della vegliarda – che riscopriamo, anche nell’estrema stagione, testardamente attaccata alla vita, alle piccole gioie, ai vezzi civettuoli – è la seguente:
“Nel ritratto, fai cadere la luce dall’alto, perché dal basso si vedono le rughe”. Una grande personalità, insomma, oltre che una grande artista.
E grande artista fu pure Fede Galizia (1578-1630). Ma quale differenza da Sofonisba! Di lei sappiamo poco, pochissimo (e pochi sono i quadri giunti sino a noi: peraltro, tutti capolavori). All’esistenza errabonda, romanzesca e vividamente gagliarda dell’Anguissola contrappone un quieto, monocorde cammino lungo le lineari coordinate della quotidianità. Un percorso di solitudine, permeato dall’infinito amore per le cose semplici. A partire dalle celebri, “rivoluzionarie” rose di cui parlavo nello scorso numero di Stile: oggetti-stati d’animo, punto di delega di questa donna, che mi piace immaginare oltre la grata di una finestra milanese del Seicento, immersa nella penombra d’interno dei suoi pomeriggi deserti, mentre dipinge tavole trascorse da uno spirito che oggi definiremmo chardiniano, se non addirittura morandiano.
Due donne, due poli opposti, quindi. Ad unirle, la straordinaria qualità della loro produzione, all’insegna di quella pittura di verità che proprio in Lombardia ha espresso una tradizione eccelsa. Così, la mostra che ho ideato e curato per Palazzo Reale a Milano non poteva in alcun modo prescindere dalle opere di queste due geniali artiste. Ecco allora – per quanto riguarda l’Anguissola – il famoso “Ritratto di famiglia”, con il padre, il fratellino Asdrubale e la sorellina Minerva, “tanto ben fatti – il commento è sempre del Vasari – che pare che spirino e sieno vivissimi”; o l’autoritratto giovanile, dove per la prima volta Sofonisba appare in uno sfarzoso abito di corte di stile veneziano. Di Fede è possibile invece ammirare la splendida “Giuditta con la testa di Oloferne” (un tema varie volte affrontato dalla pittrice, forse portata – più o meno consciamente – ad identificarsi in qualche misura con il personaggio biblico). Un quadro, questo, che si fa mirabile sintesi di indagine psicologica – si veda lo “sguardo acuminato” della protagonista – e di attenta rappresentazione dei dettagli, quasi a precorrere il racconto meticoloso delle nature morte.