Da una missiva di fra Pietro da Novellara, ambasciatore di Isabella d’Este, alla marchesa di Mantova dell’aprile 1501 si ha notizia di un “Quadretino” commissionato da un cortigiano del re di Francia, Florimond Robertet, a Leonardo da Vinci. Questi era rientrato da pochi mesi in Toscana, dopo il soggiorno presso Lodovico il Moro, interrotto bruscamente dall’invasione francese in Lombardia. Del dipinto su tavola il religioso riporta la scena dello scherzo perpetrato da Gesù Bambino a Maria, che lo tiene in braccio, a cui ha sottratto l’aspo. Due sono le opere del maestro che i suoi maggiori studiosi contemporanei ritengono corrispondere a questa descrizione, entrambe di piccolo formato e di proprietà privata, conosciute come la “Madonna Lansdowne” e la “Madonna Buccleuch”.
Esse sono state oggetto di esame riflettografico e di studio comparativo, in occasione di una mostra che si è tenuta presso la National Gallery of Scotland, ad Edimburgo, che le presentava affiancate. Per entrambe prevale attualmente l’attribuzione a Leonardo, pur presentando in parte interventi di bottega. Sia Martin Kemp che Cecil Gould, a seguito degli approfondimenti citati, hanno concordato con Carlo Pedretti circa l’identificazione della tavola Lansdowne, peraltro trasferita su tela alla fine dell’Ottocento per prevenirne il degrado, con la “Madonna dei fusi” iniziata nel 1501 e probabilmente portata a termine solo nel 1507. Oltre la metà della superficie pittorica del dipinto è occupata da uno scorcio paesaggistico che si dispiega alle spalle, a sinistra, del gruppo della Vergine e del Bambino; questi ultimi occupano il primo piano centrale, muovendolo lievemente, con la rotazione verso destra del corpo nudo di Gesù, trattenuto dal braccio materno e rivolto a contemplare un aspo, prefigurazione della morte su croce, e la proiezione opposta di Maria, con le gambe rivolte verso sinistra. Il paesaggio in secondo piano fa da contraltare alla roccia stratificata che occupa l’angolo in basso a destra, su cui si appoggiano le figure. La descrizione, pur rigorosa e puntuale, del conglomerato a piani paralleli, risulta funzionale alla composizione, costituendo un appoggio naturale in particolare al corpo dell’infante che si è appena girato. Lo scorcio che si distende oltre Maria sembra acquistare invece una valenza a se stante, per la maggiore estensione, la più ricca complessità morfologica e l’accuratezza della resa. L’autore rappresenta un’ampia depressione valliva, al centro della quale scorre, placido, un fiume dal corso regolare, attraversato da un ponte a sette arcate, dalle profonde luci irregolari, che pare collegato ad un’ampia carreggiata che permette l’ascesa al colle centrale. Ai margini della golena, così ben distinguibile dal punto di vista privilegiato dell’osservatore, si fronteggiano due pareti a strapiombo, spesso completamente prive di vegetazione, rese con il brunito caratteristico dell’argilla, di cui si immagina siano composte.
Questi riferimenti puntuali presentano delle straordinarie analogie con i conglomerati di sabbia e argilla che caratterizzano le cosiddette “Balze” del Valdarno, poste ai piedi della dorsale del Pratomagno. A proposito di esse Leonardo osserva che “si vedono le profonde segature de’ fiumi che quivi sono passati”. In effetti, in quest’area l’azione erosiva dello scorrimento di acque meteoriche ha provocato nei secoli incisioni e solchi lungo le linee di dilavamento, asportando anche la vegetazione superficiale e a cespuglio. Notizie sulla presenza di Leonardo in questo territorio proprio negli anni della supposta realizzazione della “Madonna dei fusi” si ricavano dalla biografia dell’artista-scienziato, al servizio dapprima del Duca Valentino e poi di Pier Soderini in qualità di ingegnere militare, scrupoloso osservatore del Valdarno, di cui descrive i mutamenti idrogeologici (cfr. Codice Hammer, f9r, 9A), propedeutici al progetto di deviare e canalizzare il corso del fiume. Ancora l’Hammer contiene riferimenti alle geniali intuizioni circa la stratificazione delle rocce, anticipando di circa centocinquant’anni i principi enunciati nella seconda metà del XVII secolo da Stenone, allorché osserva “le corrispondenze delle falde esser così da l’un de’ lati del fiume, come dall’altro” (Hammer, f. 10r, 10A). Pare proprio che questa nota si addica al secondo piano di sinistra della “Madonna dei fusi”. D’altronde l’attenzione di Leonardo per il processo di erosione sulle rocce sedimentarie e sui ripiani di diverso pendio è documentata fin dal 1473; nella “Madonna dei fusi” la resa del dato naturalistico consente una maggiore precisazione topografica, che verrà ulteriormente affinata nel successivo paesaggio fantastico di Monna Lisa. Indubbia è pure la somiglianza fra il ponte raffigurato da Leonardo e quello di origine romana di Buriano, di grande importanza strategico-commerciale, perché posto sull’asse viario che collega la campagna aretina con Firenze, e certamente da lui visto più volte nel 1502. Convinto assertore dell’influenza del paesaggio toscano nella pittura leonardesca, in particolare di questo periodo, è Carlo Starnazzi, autore di monografie sull’argomento pubblicate negli anni scorsi (e curatore di una mostra al Palazzo dei Priori di Arezzo nel 2000). In esse lo studioso ha proposto una lettura alternativa a quella da tempo formulata da Carlo Pedretti, che legge invece nello sfondo reminiscenze dei viaggi del maestro di Vinci in Friuli, durante i quali avrebbe catturato gli effetti della prospettiva aerea e dell’atmosfera sulle montagne osservate in lontananza. Peraltro lo stesso critico evidenzia come l’attribuzione a Leonardo da parte del Suida, in alternativa a quella tradizionale al Sodoma, si è basata proprio sull’analisi del paesaggio montano dello sfondo. Starnazzi ritiene che il Valdarno affascini Leonardo e ne stimoli la concezione filosofica sulla dinamica della vita cosmica, tanto che nel “Libro di pittura” scrive dell’effetto ottico per la fusione delle forme e dei colori riflessi dalle “Balze”, che si rivestono d’azzurro “quasi del color dell’aria, quando il sole è per levante”. Ancora, lo studioso mette in evidenza un’analogia cromatica, a cui attribuisce una valenza simbolica, tra figura e paesaggio, quando afferma che “sia la Madre del Redentore che la madre terra sono velate di azzurro. Come in molte sue opere, Leonardo stava anche qui suggerendo che questo principio unificante è alla base di tutte le manifestazioni della creazione divina. Conforme alla sua cosmologia, la scintilla vitale, animando l’anatomia umana, ha quasi un senso baudelairiano di segrete corrispondenze con le forze della natura, che fanno scorrere l’acqua nel letto dei fiumi e proliferare gli alberi nella superficie della terra”. Interessante sarà seguire gli sviluppi di entrambi questi filoni di studio, senza escludere a priori l’ipotesi della adeguatezza di entrambe le tesi, in particolare se riferite a due porzioni distinte dello sfondo della “Madonna dei fusi”: la golena fluviale e la progressione evanescente dei monti verso l’orizzonte.