di Giovanna Galli
[V]incenzo Bonomini, pittore bergamasco nato nel 1757, è ricordato tra le più originali personalità lombarde che, avendo partecipato in prima persona all’affermazione del Neoclassicismo (stile rarefatto e per sua natura internazionale, che seppe comunque innestarsi senza traumi nelle migliori tradizioni locali), hanno contribuito all’estinzione di quel longevo sistema di “scuole” regionali e municipali che caratterizzava l’organizzazione artistica del tempo, andando peraltro a costituire con il suo lavoro un tassello perfettamente inseribile nel grande e variegato mosaico del Protoromanticismo europeo. La sua figura viene puntualmente analizzata da Renzo Mangili in un volume, a cura di Fernando Mazzocca, Ottocento Lombardo. Arti e decorazione (Skira). Figlio di un modesto pittore che era stato allievo di Fra Galgario, e che si era distinto soprattutto per l’affondo psicologico di alcuni ritratti, Vincenzo trasse dal padre i primi rudimenti della professione, ma sin dagli esordi la sua poetica si contraddistinse per un’inedita apertura alla modernità, di cui risulta difficile rintracciare le esatte origini. Non si esclude, nonostante l’assenza di fonti, un suo viaggio a Roma e si ipotizza che il suo sguardo, chiaramente imbevuto della venezianità qualitativamente spiccata dell’ambiente d’origine, si sia precocemente rivolto a Milano, il polo d’arte e di cultura più vicino e facilmente raggiungibile, dove circolavano le correnti dell’evoluzione razionalista ed illuministica e, a partire dal 1776, presero forma le sperimentazioni visive messe in atto dai maestri della neonata Accademia di Brera.
Prontissima fu comunque l’accoglienza che al giovane fu riservata da parte di chi finanziava i maggiori cantieri decorativi del Bergamasco: sulle pareti di palazzi, ville e chiese, il pittore, con il suo stile schietto ed estroso, prese ad esaltare gli aspetti dinamici e istintuali dell’avventura umana, riconducendovi anche l’agire delle figure sacre, e intonando tutta la sua cifra espressiva ad un armonico e finissimo canto alla Vita.
Il suo estro incontenibile trovò adeguato mezzo espressivo nella tempera a calce, di rapida trattazione, su cui interveniva con un segno aggiornato di matrice spiccatamente moderna. A causa dell’assoluta preponderanza, all’interno della sua produzione, di opere realizzate in contesti decorativi privati, e vista anche l’inamovibilità dei supporti, la ridotta possibilità di scelta riguardo all’inserimento di una campionatura della sua espressione nel contesto di mostre ed esposizioni, ha determinato il fatto che la fama del Bonomini (oggetto nel corso del Novecento di un’ampia rivalutazione) risulti quasi totalmente legata al ciclo di opere su tela con Scene di scheletri viventi, eseguite per la chiesa Santa Grata inter Vites di Borgo Canale, a Bergamo.
Si tratta di sei pannelli databili per considerazioni stilistiche, ma anche per alcune citazioni iconografiche, fra il 1802 e il 1810, che il maestro donò al luogo di culto di cui era assiduo frequentatore e (per un breve periodo) fabbriciere. Essi originariamente fungevano da supporto decorativo-didascalico al catafalco che veniva montato durante i tre giorni d’autunno dedicati al suffragio dei defunti. La singolarità del ciclo risiede non solo nella scelta, perfettamente inquadrabile nel contesto di quell’attrazione-repulsa per l’oltretombale e il negromantico di pertinenza del Protoromanticismo europeo, di effigiare alcune figure scheletriche colte in momenti e gestualità quotidiani, ma anche nell’utilizzo come “modelli” di personaggi reali. Compaiono infatti nelle tele, oltre ad un autoritratto accanto alla seconda delle tre mogli e al piccolo aiutante Caffi (Pittore che dipinge la Morte), altri abitanti di Borgo Canale, al tempo facilmente riconoscibili da tutti, al punto che, stando alla tradizione orale, la prima esposizione pubblica delle opere scatenò non poche reazioni di ilarità.
Se questo inconsueto apparato decorativo ha come nucleo contenutistico la Morte, ovvero la personificazione della massima paura umana, occorre notare che nemmeno qui viene in realtà meno il registro intonato a quel canto alla Vita che, come si accennava, modula tutta la produzione bonominiana. In una ragionata molteplicità di senso, non scevra da una sottile ironia, il pittore infatti associa all’evocazione del religioso memento mori elementi di colto richiamo letterario che rimandano alla riflessione illuministica intorno a natura e società. In verità, Vincenzo sfugge qui ad ogni riduzione a generi già definiti nella storia dell’arte.
Apparentemente lontano dalla “danza macabra” tardo-medievale o dai fogli di soggetto lugubre incisi da Holbein o Dürer, estraneo pure alla poetica dei cosiddetti “pittori dell’immaginario” transitati a Roma nel secondo Settecento, Bonomini ha prodotto con questo polittico una sorta di isolata manifestazione del clima protoromantico, rimanendo sul piano strettamente linguistico in perfetto equilibrio tra la “bella pittura” di matrice veneziana e l’idealità, fatta di verticalità e luminosità, propria dei maestri di Brera, a ulteriore dimostrazione della sua capacità di conciliare ecletticamente spunti e linguaggi differenti per esiti di indubbia autonomia e modernità.
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