Il casuale ritrovamento di documenti dell’epoca permette di ricostruire le vicende che portarono in un breve lasso di tempo alla totale dispersione da parte degli eredi dell’ingente patrimonio costruito con oculatezza da Giambattista e da Giandomenico, uniti nel sogno di perpetuare, con la gloria e la fama assicurate dall’arte, il potere economico e lo status sociale della propria famiglia
di Piercarlo Morandi
[L’]accidentale ritrovamento di carteggi riguardanti l’eredità lasciata alla moglie Margherita Moscheni da Giandomenico Tiepolo e le vicende dei suoi possedimenti nel periodo compreso fra il 1800 e il 1826, consente di ricostruire con una certa precisione la fine, fin qui piuttosto oscura, della cospicua fortuna accumulata dalla famiglia Tiepolo, soprattutto in virtù dell’arte del capostipite Giambattista.
In effetti, quando il primo febbraio 1794 il notaio Carlo Pisani redige il testamento di Giandomenico, il patrimonio di famiglia è decisamente consistente e tale da lasciar immaginare una tranquilla e agiata vecchiaia agli eredi. In pochi decenni, l’attività indefessa e ricca di soddisfazioni dei membri della bottega, in particolare del padre, aveva permesso di accumulare sostanziose ricchezze. Addirittura la fama e la stima conquistate nei confronti dei contemporanei e le continue committenze avevano fatto sì che, nel 1736, Giambattista rifiutasse l’offerta del sovrano di Svezia di affrescare il Palazzo reale di Stoccolma, perché, a suo giudizio, scarsamente remunerativa (per la stessa somma gli avrebbe inviato in alternativa l’opera Giove e Danae, ancora oggi là custodita).
Nella Venezia del Settecento, dal lungo e pur sempre luminoso tramonto, si affianca all’illustre casata patrizia dei Tiepolo, che per secoli ha dato alla Repubblica dogi, patriarchi, procuratori di San Marco, baili, un’omonima casata di grandi pittori.
A lungo si è favoleggiato di un presunto legame tra la nobile famiglia e i Tiepolo di Corte San Domenico, nel popoloso sestriere di Castello, dove, nel 1696, aveva visto la luce Giambattista, figlio del piccolo armatore Domenico e di Orsetta Marangon. La diffusa convinzione di una parentela fra le casate è stata poi rafforzata dal fatto che a tenere a battesimo il bimbo fosse il nobiluomo Giovanni Donà: tuttavia lunghe ricerche d’archivio hanno finito per escludere questa possibilità.
Resta il fatto che, al pari degli avveduti patrizi omonimi, i Tiepolo seppero investire in terreni e case in Terraferma le fortune economiche che accompagnarono quelle artistiche. Non soltanto Tiziano, tra i pittori veneti, dimostrò insomma attitudine agli affari di famiglia: anche Giambattista Tiepolo gestì saggiamente i propri beni, e la bottega prosperò. Il figlio Giandomenico, dal canto suo, integrò perfettamente il padre, con abilità, e il sodalizio creativo fra i due fu tale che spesso la critica ha faticosamente distinto le differenti mani in opere attribuite a Giambattista.
La Venezia di quegli anni è però solo un pallido ricordo della città dei secoli d’oro, quando era il centro degli scambi con l’Oriente, di grande peso politico e prestigio: gode sempre di un’immagine gloriosa, ma, lontana dagli eventi del mondo, stenta a governare il suo ancor vasto territorio di levante (Creta, Morea, Albania, Dalmazia), ritratta com’è su se stessa e amministrata da un patriziato spento e quasi completamente cieco di fronte all’inevitabile declino. E così le fortune dei Tiepolo prosperano finché prospera questo ceto, che ancora indugia negli agi in villa, dove il genio di Giambattista e Giandomenico dà vita a straordinari capolavori.
Poi, apparentemente in modo inspiegabile, il patrimonio va in fumo. Come informa in modo accurato Clauco Benito Tiozzo in un saggio pubblicato in Pittura veneziana. Dal Quattrocento al Settecento (Arsenale editrice), che si basa sui documenti ritrovati di cui si diceva, gli eredi di Giandomenico si ritroveranno in pochi anni in gravi difficoltà economiche, a causa della cattiva gestione delle ricchezze acquisite. Nei carteggi si legge che alla morte di Giandomenico, avvenuta il 3 marzo 1804, tutto o quasi il patrimonio andava in usufrutto alla vedova Margherita Moscheni e, alla morte di questa, ai Bardesi, figli dei figli della sorella Elena.
Il testamento del pittore recava in allegato un elenco dettagliato degli immobili, con il relativo valore e le rendite che fornivano di anno in anno: oltre a vaste proprietà di campagna, erano indicati anche alcuni stabili di Venezia. Il testamento era stato reso pubblico il 6 marzo 1804, provocando una contestazione immediata da parte dei Bardese: contestazione che finì presto, dato che il 7 maggio del 1805 la Moscheni si unì in matrimonio al nipote GioBatta Bardesi, il quale aveva amministrato i poderi dello zio fin dal 1784.
Prima di risposarsi, però, Margerita Moscheni aveva ottenuto un cospicuo prestito di quattromila ducati, principalmente utilizzato per far fronte alla tassazione sull’eredità, dai fratelli Crotta – ricchi e avidi possidenti con terreni confinanti con quelli dei Tiepolo -, stipulando con loro un contratto di livello su alcune proprietà (sessanta campi), affrancabile nell’arco di cinque anni versando duemiladuecento ducati all’anno. Nel 1809, alla morte di GioBatta, Margherita – che tardava ad onorare i suoi impegni – fu raggiunta da un’ingiunzione di pagamento del debito a cui, dopo aver chiesto comprensione e dilazioni, si decise a far fronte cedendo ai Crotta la proprietà dei sessanta campi.
Nel 1824 anche Margherita Moscheni morì, ma i parenti Bardese non riuscirono ad entrare subito in possesso dell’eredità dei Tiepolo, che venne loro aggiudicata solo nel 1826. Ben presto, però, essi se ne disfecero, vendendo tutte le proprietà a tale Natale Concina, come si legge in un atto steso a Mirano dal notaio Zampiccoli. Dai carteggi si evince che gli eredi di Giambattista e di Giandomenico avevano mosso senza successo una petizione per invalidare la vendita dei terreni ai fratelli Crotta, vendita che contestavano poiché “l’usufruttuaria doveva mantenere intatta la proprietà”. Così l’eredità lasciata dai grandi pittori veneti era definitivamente dispersa.