di Maurizio Bernardelli Curuz
Un uso vibrante e sensuale del colore, uno spazio crescente assegnato al fondale, quindi ai paesaggi, all’ambiente. Queste sono le caratteristiche più evidenti della pittura veneta del Cinquecento. Ma vorremmo comprendere a fondo, professor Caroli, le novità rispetto alle altre scuole.
La scuola veneta nasce con l’idea della pittura tonale. La pittura tonale prevede in ogni punto della visione la stessa qualità di luce. O meglio: nelle opere di questa scuola appare un’unità luministica vera, che impregna di sé tutte le parti del quadro. Questa è una grande novità, questo è lo straordinario elemento di stacco rispetto alle altre scuole. Basti dire che Longhi, avendo negli occhi il colore della pittura veneta, giudica “torbida e pisciosa” la luce dei fiorentini. Possiamo peraltro identificare il preciso istante in cui la pittura tonale viene adottata. Nasce in un’opera precisa che è la Pala di Pesaro, opera di Giovanni Bellini. Bellini (1434 ca-1516), nel momento in cui abbandona il rovello disegnativo con miti classici – che aveva desunto dal cognato Mantegna – giunge a esiti completamente nuovi. La linea della pittura tonale trova sublime maturazione con Giorgione e poi Tiziano (1490 ca-1576).
Per pittura tonale dobbiamo allora intendere un uso naturale della luce. La sorgente luminosa e l’ambiente circostante, come avviene in natura, si fondono sotto il profilo del cromatico. Ogni oggetto assorbe tonalità dal tutto e, al tempo stesso, cede riverberi.
Possiamo parlare di sinfonia tonale. Ecco perché un grande veneziano come Lotto a un certo punto è tagliato fuori. Quando parte da Venezia è già un riconosciuto maestro; poi comincia a viaggiare (…Marche, Roma, Toscana e Bergamo…) e nel momento in cui si riaffaccia a Venezia scopre ormai di appartenere al passato, poiché nel frattempo si è imposta la linea della pittura tonale. Tiziano poteva giudicare quindi Lotto una specie di pittore medievale. Nel libro di uno storico veneziano di quegli anni viene espresso un duro giudizio – suscitato dal confronto con la pittura tonale – sull’opera di Lotto. “Di tali cattive tinte – scrive ( io cito a memoria) – parmi esempio assai mirabile il quadro del Lotto che si trova al Carmine”. Ciò che era avvenuto in precedenza era di fatto cancellato. Ed è per questo motivo – un motivo che sta nel colore, in un colore che provoca essudazioni cromatiche nell’unità di luce – che Tiziano, quando si guarda attorno tra i giovani, sceglie Veronese e comincia a non sopportare più il Tintoretto. Veronese è l’erede perfetto di quella linea di luce e colore. Tintoretto forza invece il colore con interventi chiaroscurali. Si pone fuori linea.
Ed ecco, nella pittura veneta emergere, con forza sempre maggiore – e con spazi notevoli -, il paesaggio dei fondali.
Proprio nel momento in cui nasce la pittura tonale, il paesaggio diventa protagonista. Corot arriverà da lì…Ogni pittura di verità ottica deriva da Bellini e dalla pittura tonale.
Andiamo appunto alle origini, agli anni di Bellini e di Antonello da Messina che mi sembrano strategici per riuscire a comprendere da dove discenda la prima maturità della pittura veneta e questa lievitazione del paesaggi all’interno dei quadri.
Assistiamo a intensi scambi. Nella fase costituiva del miracolo veneto arriva a Venezia Antonello da Messina. Antonello porta con sé, nell’autonoma rilettura, la lezione di Piero della Francesca e, d’altro canto, le novità che giungono da Nord. In laguna, nei primi anni del Cinquecento, arrivano anche i manieristi fiamminghi come il Civetta, pittore di paesaggio. A ciò va aggiunta la “famigerata” invenzione della pittura ad olio che è fondamentale per lo sviluppo della pittura tonale.
I pigmenti diluiti nell’olio assegnano alla pittura un nitore e una trasparenza che consentono di raggiungere importanti risultati rispetto alla luce… Ritiene che sia poi possibile mettere in relazione questa netta inclinazione colorista degli artisti veneziani con le radici culturali di Venezia, con il suo essere porta d’Oriente? Il diffuso oro atmosferico che troviamo nei quadri di Tiziano e che fa pensare alle luminescenze dei mosaici di San Marco.
Oro diffuso. Questo scintillio di Venezia non può che aver influenzato la percezione degli artisti veneti. Ma in Tiziano – che non è un pedissequo prosecutore di Bellini e poi di Giorgione – il colore si scalda ulteriormente, raggiunge una sublime sensualità. Tiziano è capace di partire con un beige, girare attorno alle possibili tinte del marrone per chiudere con un nero impastato di beige.
Ciò significa che il beige, in quel quadro è l’elemento lucee che in ogni parte dell’opera i toni dipartono appunto dal quel colore….Grazie all’introduzione della pittura tonale si sviluppa nella pittura veneta un diverso rapporto con le ombre. La parte scura, come dicevamo, vibra – pur in modo attenuato – sulla stessa onda cromatica emessa dall’insieme della luce e degli elementi costitutivi del quadro. Si va in una direzione diversa da quella esplorata da Leonardo.
Infatti. Il problema, in Leonardo, è opposto: mentre Bellini, assume una chiave di luce e di colore – e di colore impregnato di luce – Leonardo parte da una matrice disegnativa, tutta fiorentina, E poiché egli si pone il problema di fondere e unificare la figura al paesaggio, inventa la chiave del chiaroscuro, assumendola da disegno. Quando si dice dell’influenza di Leonardo su Giorgione a seguito del verosimilissimo incontro del marzo 1500 essa va in esclusiva direzione della fisionomica – cioè della rappresentazione dei moti dell’animo letti sul volto dei protagonisti – non in direzione luministica. Sbagliano quegli autori che parlano della “luce leonardesca” nella pala di Castelfranco. Giorgione assume invece da Leonardo, come dicevamo, la lezione sull’espressività dei volti, frutto dei moti dell’anima.
A proposito di Giorgione, resta ancora un mistero la lettura simbologica della famosa “Tempesta”. Un grande paesaggio, vegetazione folta di atarda primavera, un nucleo urbano alla distanza e, in primo piano una donna che allatta un bambino mentre dalla parte opposta, un giovane uomo. Qualcuno ha pensato ad un’allegoria che rinvia alle figure di Adamo ed Eva.
La lettura dell’opera ha dato esiti molto diversi. Non v’è certezza su nessuna interpretazione. Mi ricordo che, fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, circolava, tra gli storici dell’arte longhiani, una battuta sull’accanimento interpretativo: si diceva che il quadro rappresentasse il Compromesso storico. In verità siamo molto lontani dal mondo di contenuti di quell’epoca ed è possibilissimo che i significati allegorici ci possano sfuggire.
I casi di Bergamo e di Brescia sono eloquenti per comprendere le differenze che passano tra la pittura lombarda – d’area milanese – e la pittura veneta. Ad un certo punto (in seguito al 1426) queste due città, che in precedenza gravitavano nell’orbita del Ducato di Milano, passano a Venezia. Nei decenni successivi la pittura delle stesse viene colpita da una sorta di strabismo di Venere, suscitato dallo sguardo contemporaneo lanciato dalle due province di Terraferma a Milano e alla Laguna. Quali sono, a suo giudizio, le differenze maggiori tra la pittura lombarda e quella veneta? E quale la specificità dell’area intermedia costituita, appunto, da Bergamo-Brescia?
L’area milanese è contrassegnata da Leonardo e dalla sua attenzione alla rappresentazione dei moti dell’anima. Leonardo per tutti gli anni ’80-’90 del Quattrocento lavora in tale direzione, facendo convergere questa ricerca nel sublime e definitivo “Cenacolo”. Dicevamo in precedenza che Leonardo arriva a Venezia – e giunge portando con sé tutti i suoi codici – e incontra Giorgione. Guarda caso, è proprio nel 1500 che Giorgione inizia la ritrattistica. Mentre sono state condotte battaglie per antedatare la pala di Castelfranco, non c’è nessuno che neghi che la ritrattistica di Giorgione inizia nel 1500… Perché ho fatto la mostra dedicata al Cinquecento lombardo? Su tutto il discorso della realtà in pittura si era espresso in modo geniale Longhi. Longhi, per idiosincrasie che discendevano da una cultura courbettiana, impressionistica e purovisibilistica, non tollerava Leonardo, maestro del profondo. Lo storico dell’arte era molto legato a un pittura di superficie che non poteva accordarsi con la pittura della profondità. Invece noi oggi dobbiamo considerare che cinque secoli di pittura in direzione del profondo, si sviluppano proprio a partire da Leonardo. Ecco perchè ho lavorato alla mostra “Il Cinquecento lombardo”: per risarcire Leonardo. E lavorando pensavo alla prima volta in cui ho incontrato Longhi. Lui, con la sigaretta appesa al labbro superiore, commentò lapidariamente: “Quell’antipatico di Leonardo…”. Ora abbiamo visto come Milano fosse impregnata della lezione leonardesca. Dopo di che, per ampliare il quadro degli elementi costitutivi della pittura lombarda, dobbiamo considerare la componente bresciano-bergamasca, quella su cui Longhi ha fatto un lavoro meraviglioso. Brescia e Bergamo portano con sé tutta la cultura realistica che parte dalla pittura tardogotica. C’è una vocazione cromosomica nei confronti dell’attenzione alla realtà. Il punto chiave è Foppa, che per metà ha quarti di nobiltà gotica e per metà entra nel naturalismo come fenomeno moderno di rappresentazione della realtà. Certo ci sono dialoghi entro culture diverse. Il bresciano Savoldo vive a Venezia. Si prospetta un dialogo intenso, che continua nel tempo, con Milano. A parte l’arricchimento, resta sempre questa specificità che filtra attraverso i bresciani e i bergamaschi. La visione realistica in qualche modo incontra Tiziano, ma non si fa cancellare neanche quando Tiziano manda a Brescia il “Polittico Averoldi”. Da ciò nasce l’autonomia della pittura lombarda, da questa verità di concrezione materica delle cose che la rende autonoma dalla grande, sublime retorica veneziana.
Lei ha scritto un libro dedicato a Tiziano (libro che è in fase di uscita, in riedizione, presso una grossa casa editrice). Tiziano portò all’internazionalizzazione della pittura veneta – basti pensare al suo fulgido transito nel mondo spagnolo e, attraverso Carlo V, a tutto l’impero – e cacciò fuori dalle mura altri pittori. Cosa avviene esattamente dopo Tiziano?
Tiziano e quelli che vengono subito dopo (pensiamo appunto a Veronese, Tintoretto e Bassano) raggiungono un apice, quindi la pittura veneziana sembra esaurirsi con loro. Già. Il Seicento veneziano è a volte anche attraente, ma la pittura si improvincialisce. Per il rilancio bisognerà attendere fino al Settecento.
Il napoletano Luca Giordano, abbacinato dalla sensualità di Tiziano, sarà uno dei pittori che convincerà i veneti a guardare con rinnovata ammirazione l’antico maestro.
Luca Giordano, sì. Ma dobbiamo considerare che a un certo punto il venetismo va a finire nella pittura barocca… Il venetismo diventa pittura barocca. Il venetismo diventa poi pittura rococò. Il rococò avrà due capitali: Venezia e Parigi. Con Guardi si esaurisce questa linea, sopravvive la linea profonda che porterà a Corot.