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“Guarda un po’, devo dipingere cinquanta teste solo per farmi un’esperienza, perché proprio ora sto entrando in carreggiata (…) Ho fatto i miei calcoli, ma senza un po’ di denaro in più non mi è possibile lavorare con quella energia che sarei ben disposto a dedicarvi”. In una lettera del novembre del 1884 scritta da Nuenen, in Olanda, Vincent van Gogh sollecita caldamente la generosità del fratello Theo. Il denaro che chiede serve per pagare i modelli che posano per lui: sono tessitori e contadini con le loro famiglie, impegnati nei vari momenti della giornata. Lavoratori che, abituati a guadagnarsi da vivere con il sudore della fronte, guardano con benevola curiosità a quell’uomo di poco più di trent’anni, dai capelli rossi e dalla barba non sempre curata, il figlio del pastore protestante del loro paese, pronto a pagarli per non fare nulla. Vengono prodotti dipinti scuri, oleosi, grevi, ma potenti.
Da cosa fu causato, pittoricamente, questo periodo tenebroso nella pittura di Vincent Van Gogh? Esso si collocò, come apparente cesura, tra le prime prove fortemente disegnative e il periodo francese che rischiarò notevolmente la tavolozza. Qui siamo in un’epoca – 1884-1885 – nella quale l’artista, dopo essersi illuso di fare il predicatore e di occuparsi dell’aiuto ai più poveri, cerca di portare nella pittura l’oscurità della povertà.Al fratello che gli scrisse della scuola impressionista, rispose di non conoscerla e di considerare degli artisti originali Delacroix, Millet e Corot, «intorno ai quali i pittori di contadini e di paesaggi devono girare come intorno a un asse».
Altri più distanti punti di riferimento sono Millet – ma il suo mondo contadino è troppo romanticamente edulcorato -, Daumier – che cerca una chiave grottesca – e i pittori fiamminghi, per gli accordi scuri e il tenebrismo.
Ma è anche la realtà dei poveri tuguri che egli visita, a Neunen, il paese in cui il padre fa il predicatore a darli la forza dell’espressione pittorica. Van Gogh scandaglia uomini e donne negli angoli incrostati di cenere e di fuliggine, in cui vivono. Alla ricerca degli ultimi, che sono oggetto della stessa azione di carità evangelica del padre. Sotto il profilo tecnico, possiamo osservare anche uno studio dell’artista rispetto al comportamento nella luce negli ambienti molto scuri. Questo aspetto di sperimentazione pittorica non può essere sottovalutato.
Per nulla lenticolari o fotografiche – rispetto agli acquerelli molto controllati, nel segno, del periodo precedente – le opere del periodo di Neunen vogliono esprimere una realtà, piuttosto che rappresentarla. Del resto sono gli anni di Zola e, in Italia, del Verismo. Il bello scompare a favore di un vero raccapricciante. L’Europa è attraversata dalla necessità morale della denuncia delle bestiali condizioni in cui vengono costretti operai e contadini, o comunque le classi che occupano gli ultimi gradini della scala sociale. Van Gogh, più o meno consapevolmente, indica la porta dell’espressionismo, come massima espressione della realtà stessa, che va al di là dei tradizionali rilevamenti borghesi.
LA TECNICA E LA DIFFICOLTA’
NEL DOMINARE COLORI E PENNELLI
Poichè di questi lavori, oggi, osserviamo e apprezziamo la valenza espressiva, siamo portati a vederli come prove già compiutamente gestite sotto il profilo tecnico dal giovane maestro. Ma, all’epoca, non era assolutamente così. In questi dipinti Van Gogh si allontana dai disegni che aveva realizzato nel passato a lui prossimo e che contrassegnano le primissime prove. Crea i personaggi e gli ambienti con masse scure, quasi dovesse plasmarle o realizzarle per accumulazione. C’è una volontà di eccedere, ma l’effetto non è controllato. A distanza di un più un secolo è ancora visibile la mal gestita quantità del colore eccessivamente oleoso sul supporto pittorico, che crea l’impressione di materia viscida che spesso troviamo nelle opere dei principianti. Non è, del tutto, una scelta, ma un limite divenuto un aspetto positivo perchè rende ancora più primitivo il rapporto tra pittore e materia rappresentata. Sono prove grevi, ancora essudanti, che, all’epoca, potevano essere guardate soltanto come lavori di un dilettante. Eppure queste radici già espressioniste, sommate al recupero del disegno e all’esplosione di colore dell’impressionismo e della Francia meridionale porteranno al fenomeno di Van Gogh.
Metropolitan museum
La pelatrice di patate (reverse: Self-Portrait with a Straw Hat)
Artist:Vincent van Gogh (Dutch, Zundert 1853–1890 Auvers-sur-Oise)
Date:1885
Medium:Oil on canvas
Dimensions:16 x 12 1/2 in. (40.6 x 31.8 cm)
Classification:Paintings
Credit Line:Bequest of Miss Adelaide Milton de Groot (1876–1967), 1967
Accession Number:67.187.70b
Questo dipinto venne realizzato tra febbraio e marzo del 1885, con la sua gamma di colori ristretta ai toni scuri, fattura grossolana e la ripartizione delle masse a blocchi, tipico delle opere di Van Gogh stese a Nuenen, l’anno precedente alla sua partenza dall’Olanda alla Francia. I suoi studi di contadini del 1885 culmineranno nel suo primo importante dipinto, in cui si riequilibrano materia e disegno: I mangiatori di patate (Van Gogh Museum, Amsterdam)
I mangiatori di patate (olandese: De Aardappeleters) è un dipinto di Vincent van Gogh a olio su tela (82×114 cm), realizzato nell’aprile 1885. È conservato nel Museo Van Gogh di Amsterdam.
E’ giustamente considerato il dipinto più importante del percorso del pittore, prima del trasferimento a Parigi. Questa tela lo impegnò da 13 aprile fino all’inizio di maggio, quando il lavoro fu quasi completamente terminato. Il pittore lasciò che i colori si assestassero e successivamente, sempre nello stesso anno, aumentò la definizione e la messa a fuoco dei particolari, utilizzando un pennello di piccole dimensioni.
Questo dipinto mostra, all’interno di una povera stanza, alcuni contadini che consumano il pasto serale servendosi da un unico piatto di patate, mentre una di loro sta versando il caffè. Van Gogh è molto legato a questa opera in quanto si sente come “uno di loro”.
Van Gogh stesso esprime un suo pensiero riguardo a questo quadro da lui così sentito: “Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole”. Ma non deve essere sottovalutato il fatto che, sotto il profilo iconografico, l’opera è una trasfigurazione contemporanea e pauperistica di un’Ultima Cena.
Metropolitan museum
Contadina che cucina sul camino
Artist:Vincent van Gogh (Dutch, Zundert 1853–1890 Auvers-sur-Oise)
Date:1885
Medium:Oil on canvas
Dimensions:17 3/8 x 15 in. (44.1 x 38.1 cm)
Classification:Paintings
Credit Line:Gift of Mr. and Mrs. Mortimer Hays, 1984
Accession Number:1984.393
Questo lavoro è stato dipinto a Nuenen nella tarda primavera del 1885, subito dopo il completamento de I mangiatori di patate, nelle stesse tonalità scure che ricordavano all’artista un “sapone verde” o “una patata molto polverosa, non pelata”. Van Gogh era “convinto che a lungo andare produce risultati migliori dipingere [contadini] nella loro volgarità piuttosto che introdurre dolcezza convenzionale … Se un dipinto odora di pancetta, fumo, patate a vapore (…) se una stalla puzza di letame molto bene, questo è ciò che voglio “.
Può sembrare estremamente curioso che l’unica preoccupazione di un ancor giovane Vincent van Gogh, giunto nel 1883 nella casa dei genitori dopo le poco fortunate esperienze a Londra come mercante d’arte e nella zona delle miniere del Borinage come missionario predicatore, fosse quella di garantirsi il ritrovamento dei soggetti da dipingere, eppure, da quando la propria ricerca interiore lo aveva portato alla conclusione che la sua missione nella vita doveva essere la pittura, ad essa decide di consacrare, col fare estremista che gli è caratteristico, ogni momento della giornata ed ogni risorsa economica. Giunto a ritenersi “soltanto artista, infine” (la definizione si legge nella monografia di I.F. Walther e R. Metzger), egli sente l’esigenza di recuperare gli anni perduti dietro a falsi sogni ed improbabili carriere, disegnando quanto più possibile. Nel periodo di Nuenen, Van Gogh aveva a disposizione 150 franchi al mese, la somma che Theo gli inviava regolarmente, e che corrispondeva al triplo di ciò che una intera famiglia di tessitori riusciva a guadagnare nello stesso periodo. Non deve dunque stupire la disponibilità dimostrata da molti di loro nel lasciare entrare nelle povere case questo personaggio armato di matite e pennelli, per farsi ritrarre assieme alle loro famiglie.
Una particolare motivazione spinse Vincent a ritrarre questi lavoratori a cottimo: nell’attività del tessitore, il giovane pittore ritrovava una metafora per il proprio lavoro quotidiano; come lascia intuire in una lettera inviata al fratello, egli trova che quadro e tessuto sono i prodotti di attività imparentate, frutto di un fitto intreccio di fili, trame e colori. Questo bisogno di trovare una giustificazione per la scelta dei suoi soggetti che andasse al di là della semplice attrazione estetica, lo ritroviamo spesso, in Van Gogh. Gli stessi mulini che costellano le rive dei canali del Brabante, la cui rappresentazione costituisce un altro piccolo ciclo tematico di questi anni, divengono, per il pittore, un momento di forte contenuto simbolico. Ritorna qui la metafora cristiana dei mulini di Dio che macinano lentamente, così come compare la predilezione dell’artista per il processo della semina e del raccolto. In effetti, durante la propria permanenza a Nuenen, Van Gogh si accorgerà di un’altra fonte di ispirazione che sarà fondamentale nel suo percorso artistico: i contadini che, per vivere, non hanno null’altro che la loro terra e la coltivazione delle patate. Queste famiglie, che a fatica si nutrono dei frutti del loro lavoro, assurgono nella mente del pittore ad una nobiltà biblica, incarnando il mito della storia dell’Uomo dopo la cacciata dall’Eden. Di loro si innamorerà nelle innumerevoli sedute di pittura con cui, con impeto quotidiano, cerca di scavare nella rigidità dei loro tratti e nella rude scontrosità del loro fare; a loro sarà dedicato il primo quadro che Vincent stesso giudica decisivo per la propria carriera: “I mangiatori di patate”. Questo lavoro si può intendere come l’estrema sintesi dei numerosi studi di teste di contadini che il pittore produce a ritmo serrato, in un lavoro che lo impegna giorno dopo giorno per molti mesi e che lo porterà, ancora una volta, a privarsi del necessario per sé con il fine di assicurarsi una continua disponibilità di modelli. Serie di teste e di interni, oltre a numerosi schizzi compositivi e disegni di particolari, non sono altro che i bozzetti preparatori per l’opera monumentale che egli, alla fine, firma con un semplice “Vincent”.
Cinque “mangiatori di patate” siedono attorno a una rozza tavola di legno. La donna più giovane ha davanti a sé una scodella con le patate fumanti e distribuisce ai commensali la loro porzione; la vecchia di fronte a lei è concentrata sul caffè d’orzo che versa nelle ciotole pronte. Tre generazioni si riuniscono con ovvia consuetudine per la cena in comune. I loro volti sono segnati dalle tracce della fatica quotidiana, ma i grandi occhi, che seguono i gesti premurosi che vengono scambiati sul desco, esprimono fiduciosa accettazione per una condizione che, nonostante le ristrettezze, permette loro di vivere insieme. “I mangiatori di patate”, che la critica considera il primo capolavoro dell’artista, una netta cesura rispetto ai lavori precedenti, nasce dunque in studio, volutamente privo della freschezza della pittura “di getto”, costruita attorno a vere e proprie affermazioni programmatiche. Nella lettera 418, che diviene un vero e proprio manifesto scritto sull’opera, Van Gogh esamina il processo mentale che lo aveva guidato nel dipinto. Vi si legge, tra l’altro “I quadri devono essere fatti con la volontà, col sentimento, con la compassione e con l’amore, non con i sofismi di quei conoscitori che oggi si riempiono la bocca con la parola “tecnica” (…) Anziché dire: uno scavatore deve aver carattere, preferirei dire: questo contadino deve essere un contadino, questo scavatore deve scavare e allora è presente qualcosa che è essenzialmente moderno (…) la cosa che più desidero è di poter fare proprio quelle manchevolezze, quelle deviazioni, quelle aberrazioni e varianti della realtà, di modo che divengano, sì diciamolo pure, delle falsità, ma più vere della verità letterale”. E’ una rinuncia scritta, voluta e dimostrativa, di ogni manifestazione di virtuosismo e accademismo formale; se la vita quotidiana ha segnato quei volti, piegato quelle spalle, coerentemente, il dipinto che li ritrae deve mantenerne le tracce, arrivando a mantenere il brutto e il rozzo. Questa ricerca di autenticità è in Van Gogh l’adesione allo spirito di “pittura moderna” che a livello europeo andava delineandosi fortemente. Nel 1885, a due anni dall’arrivo a Nuenen, Van Gogh è così giunto a una tale autocoscienza artistica da aver potuto dar vita ad un quadro-manifesto, in linea con la tradizione di un Millet o di un Breton, gli autori prediletti. Un altro capitolo si chiude, nella sua vita, ora il confronto con la grande città diviene una vera esigenza per crescere ulteriormente: Parigi lo attende, pronta a risucchiarlo nella nuova avventura della pittura impressionista.