Orazio e Artemisia Gentileschi, padre e figlia: ombre, bagliori e trasparenze

Il padre, Orazio, fu folgorato dall’incontro con Caravaggio, senza però rinnegare la formazione toscana: compostezza compositiva e ricorso ad una luce sempre più chiara sono gli elementi che definiscono la peculiarità della sua creazione - La figlia, Artemisia, superò di slancio i pregiudizi sociali ed un terribile dramma personale per affermarsi tra i pittori più significativi del tempo
Orazio Gentileschi, Madonna con Bambino, 1610, olio su tela, cm 100X85Sotto: un'altra opera di Orazio Gentileschi
Orazio Gentileschi, Madonna con Bambino, 1610, olio su tela, cm 100X85Sotto: un’altra opera di Orazio Gentileschi

di Enrico Giustacchini

In occasione della grande mostra monografica dedicata ad Orazio ed Artemisia Gentileschi, “Stile Arte” intervistò la curatrice, Rossella Vodret, chiedendole di mettere in luce punti di contatto ed autonome nella celeberrima coppia pittorica di padre e figlia

gent41Agli inizi del Seicento, il toscano Orazio Gentileschi si trova a Roma: e qui incontra Caravaggio, di cui diventa amico e seguace. Viene “folgorato” dalla rivoluzione caravaggesca, superando i motivi sempre più stancamente riproposti dal tardomanierismo. Tuttavia, la sua è un’adesione del tutto originale e per nulla succube rispetto al genio del Merisi…
Va ricordato, innanzitutto, che – tra i seguaci di Caravaggio – Gentileschi è l’unico ad essere più anziano del maestro. Quando i due s’incontrano, inoltre, Orazio ha già quarant’anni, ed è quindi nel pieno della maturità. E’ un artista rodato, dapprima dalla formazione in Toscana, quindi dall’attività nei cantieri papali a Roma. Ha acquisito un bagaglio culturale preciso, insomma. E ciò gli consente di comprendere ed accogliere la novità, ma senza assorbirla passivamente; giungendo ad operare una sintesi originalissima. 


L’artista non abiura quindi la lezione degli esordi toscani, fondata sulla pittura semplificata di Commodi e Santi di Tito. Pensiamo alla compostezza compositiva e cromatica dei suoi dipinti, nei quali egli riesce anzi a sublimare vecchie e nuove esperienze, rileggendo il realismo caravaggesco in una chiave che potremmo definire concettuale. 

Da buon toscano, Orazio Gentileschi non è mai, fondamentalmente, drammatico. La propensione al dramma appartiene ad altre tradizioni pittoriche, come quella napoletana. C’è, in lui, la tendenza a nobilitare gli elementi più tragici del racconto. E’ questo aspetto – unito alla costante attenzione al dato disegnativo, negata invece da Caravaggio – a determinare la compostezza a cui lei faceva riferimento: e parlerei, nel caso del nostro artista, proprio di impegno alla nobilitazione del narrato, più che di classicismo. La conferma delle sue radici formative è evidente, ancora, nella scelta dei colori: la tavolozza di Orazio è tipicamente toscana. Un esempio? L’accostamento delle tonalità viola e rosa, mai utilizzato dal Merisi, mentre egli vi ricorre con grande frequenza.
La luce. Sappiamo della predilezione per le trasparenze del primo Caravaggio. In Gentileschi, la luce non si “appoggia” alle forme, ma si lascia assorbire dalle stesse, dando vita a straordinari effetti, sino al supremo schiarimento dell’ultimo periodo, quello trascorso alla Corte inglese. 
La luce è un elemento chiave nella definizione dell’originalità di Orazio Gentileschi rispetto a Caravaggio. Quest’ultimo illumina con vigore i soggetti al fine di esaltarne alcuni valori cromatici, ma rimanendo comunque alle superfici, impattate con violenza; Orazio si affida invece ad una luce chiara, che non immerge le figure nel buio, ma, piuttosto, le “deposita”, dopo aver compenetrato le forme – come non pensare a Piero della Francesca? – in un gioco mirabile di ombre e trasparenze. Una ricerca, la sua, che proseguirà inesausta fino alla morte: partendo dalla pittura più scura degli anni romani e marchigiani, il nostro agirà per progressivi schiarimenti culminando, come lei sottolineava, nelle prove estreme in Inghilterra.


E veniamo alla figlia Artemisia. E’ noto il drammatico episodio dello stupro, di cui fu vittima a diciott’anni (autore della violenza, il suo maestro Agostino Tassi, alla cui bottega la giovane era stata affidata dal padre perché perfezionasse la propria tecnica prospettica); e poi il matrimonio riparatore, e la scelta di libertà e di emancipazione che fanno di lei una sorta di femminista ante litteram. Possiamo dire che il ricordo della terribile esperienza marchierà tutta la sua produzione artistica? Pensiamo ai ritratti di donne, così aspri, duri, frementi di orgoglio, resi con chiaroscuri davvero inquietanti. Pensiamo alla violenza assoluta, spaventevole di un’opera come la “Giuditta che decapita Oloferne” di Capodimonte, presente alla vostra mostra.

Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1620 ca,,olio su tela, 199 × 162 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi
Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1620 ca,,olio su tela, 199 × 162 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi


E’ indubbio che attorno ad Artemisia Gentileschi sia stata costruita nel tempo un’impalcatura abbastanza “letteraria”. Quel che nessuno può contestare è che ci troviamo di fronte ad una figura fuori dal comune. Non dimentichiamo il ruolo subalterno ricoperto dalle donne nella società dell’epoca; per riuscire ad emergere in un ambito complesso come quello artistico doveva essere necessaria – a parte il talento – una personalità davvero fortissima. Probabilmente, l’esperienza dello stupro contribuì, per reazione, ad esaltare una tendenza già presente nel suo carattere. Proviamo a metterci nei suoi panni: dopo aver subito la violenza, viene sottoposta all’umiliazione del processo, durante il quale si tenta di far passare la tesi della “provocazione” da lei messa in atto verso il maestro. Tassi alla fine sarà condannato e imprigionato, ma Artemisia dovrà abbandonare Roma per Firenze, dove verrà costretta a sposare un uomo molto più anziano di lei. Saranno anni bui, un tunnel da cui uscirà lasciando la famiglia – marito e figli – per tornare a Roma e ricominciare, da donna sola, l’attività di pittrice. Una decisione che non sarebbe facile da prendere neppure oggi, immaginiamoci allora; e che rivela un’eccezionale spirito d’indipendenza. Per quanto riguarda i riflessi autobiografici nella sua produzione artistica, io in tutta franchezza non saprei dire se – come è stato sostenuto – in quelle femmine orgogliose, prepotenti e forzutissime ella abbia, in fondo, ritratto sempre se stessa; credo che la ricerca di altri significati sia, in mancanza di riscontri obiettivi, affidata all’opinione di ciascuno. E ciò vale anche per la “Giuditta”, dove peraltro sono evidenti i riferimenti alla tela caravaggesca di Palazzo Barberini.
La pittrice visse a lungo – oltre vent’anni – a Napoli, dove incontrò, tra gli altri, Velázquez. Esiste qualche testimonianza dei suoi rapporti col maestro spagnolo? 
Non conosciamo nessun documento relativo ad un rapporto – peraltro assai probabile – con Velázquez. Sappiamo che l’ambiente pittorico napoletano era difficile, piuttosto chiuso ed ostile verso l’esterno (Domenichino fu costretto a scappare, anche Lanfranco ebbe i suoi guai); fuori dal ristretto “clan” locale la vita risultava insomma impossibile. Forse l’unica eccezione fu proprio Artemisia.
Galanteria mediterranea? 
E chi lo sa… Comunque non solo: le sue qualità creative dovevano essere molto apprezzate, visto che a Napoli la Gentileschi lavorò parecchio, e per diversi commi

Condividi l'articolo su:
Redazione
Redazione

Stile Arte è una pubblicazione che si occupa di arte e di archeologia, con cronache approfondite o studi autonomi. E' stata fondata nel 1995 da Maurizio Bernardelli Curuz, prima come pubblicazione cartacea, poi, dal 2012, come portale on line. E' registrata al Tribunale di Brescia, secondo la legge italiana sulla stampa