di Gualtiero Marchesi
[N]el numero scorso di “Stile”, ho preso – mediante “Art food” – a confrontarmi con il Futurismo. Non l’ho fatto, però, sul piano storico- teorico – nonostante i persino ovvi riscontri diretti: a partire dal citato “Manifesto della cucina futurista” marinettiano -, bensì su quello dell’affinità poetica. Scegliendo, per la mia recensione, un’opera di Giacomo Balla (“Motivo per stoffa con linee andamentali”, tempera e matita nera su carta, 1922 circa), ho saltato a piè pari il fiume gonfio della rivoluzione – di una rivoluzione che voleva sconvolgere ogni aspetto del vivere, non esclusa la gastronomia, seppellendo tradizione e consuetudine – per planare sul territorio governato da un rinnovamento giocoso, fantastico e leggiadro. Stavolta affronto, invece, l’altra faccia della medaglia. Mi riferisco ad un diverso Futurismo, il Futurismo della velocità, dei motori che rombano, delle eliche che mulinano vento mugghiante. Mi affascinano, ad esempio, le “tavole rotative”, forse per quel somigliare a piatti, formidabili piatti dipinti pronti a lievitare negli spazi siderei, a competere tra le nuvole con eroici, perigliosi e approssimativi vascelli volanti. Si veda la “Tavola rotativa dell’Arena di Verona”, di Renato Di Bosso (1935, olio su legno, diam. 85 cm.), opera presente alla splendida mostra “Futurismo 1909-1944”, curata da Enrico Crispolti per il Palazzo delle Esposizioni di Roma. Dove muri di case, tappeti di strade, chiome d’alberi da viale, pietre di gloriose vestigia, ogni dettaglio della geografia urbana si destruttura centrifugamente, in un folle girotondo, sino a scomporsi in foglie malleabili e avvolgenti (Di Bosso aveva sottoscritto, nel 1933, il “Manifesto futurista per la città musicale”).
E dove la diffusa oscurità di fondo è violata per lame di luce, e di colore. Così, inebriato da tale fascinazione, ho creato la mia seconda vivanda futurista, riconducibile al “Futurismo altro”. C’è in essa – sdraiata su un cirro compatto di purè di lardo con erbe – una scultura di pancetta sottile, rosolata e croccante, dispiegata sino a riverberare vaghi profili d’aeromobile. C’è un pezzetto di testina, con accanto un fiore di cavolfiore sottaceto, a stemperare, nelle sfumature di verde, di rosa, di bruno, sagome echeggianti afflati tecnologici, ingenue infatuazioni per la macchina sognata imbattibile, temeraria, vindice d’ogni schiavitù del quotidiano (Di Bosso scriverà nel 1942, con Alfredo Gauro Ambrosi, “Eroi Macchine Ali contro Nature morte”). E c’è – analogamente al dipinto – il buio della campitura: il nero-notte d’un piatto lucido e baluginante, come una tavola futurista, come una nave astrale lievitata al cielo.