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Jacques Mahé de la Villeglé, nato a Quimper, in Bretagna nel 1926, è uno dei fondatori del movimento del Nouveau Réalisme e, con Raymond Hains, François Dufrêne e Mimmo Rotella, uno dei maggiori rappresentanti del movimento degli Affichistes. Stile Arte lo ha intervistato
Ci piacerebbe ripercorrere attraverso il filo dei suoi ricordi personali i momenti più significativi della sua carriera. A cominciare dagli inizi…
Prima di tutto, occorre precisare che negli anni immediatamente successivi alla guerra in Francia circolavano pochissime informazioni riguardo a ciò che avveniva nell’arte contemporanea. Dopo la Liberazione, il dibattito era dominato dai grandi maestri, Picasso, Léger, Braque, Matisse, che erano figure piuttosto impressionanti verso cui si nutriva ovviamente una certa soggezione. A diciannove, vent’anni ci trovavamo allora ad imparare ciò che oggi un bambino di dieci anni già sa, dunque la storia dell’arte l’abbiamo imparata solo dopo la guerra. In quel clima di disinformazione presi in un certo senso le distanze dalla pittura tradizionale.
All’École des Beaux-Arts di Rennes lei conobbe Raymond Heins, con cui strinse un sodalizio fondamentale per lo sviluppo delle vostre reciproche carriere. Che cosa vi accomunava?
Condividevamo le stesse domande riguardo al nostro futuro: che cosa fare? Che cosa dipingere? E anche l’idea di non voler imparare un mestiere. Il nostro rapporto di amicizia e di affinità artistica si alimentava grazie alle lunghe passeggiate che facevamo lungo la Loira, e proprio una di queste rappresentò un momento di svolta fondamentale. Era il gennaio del 1947, e fummo impressionati dallo “spettacolo” dei cantieri navali di Nantes, dal rumore delle seghe elettriche, dal movimento delle gru e del ponte trasbordatore. Fu quello il momento in cui ci apparve chiaro per la prima volta che la percezione diretta doveva essere ricercata e valorizzata a discapito del “fare” e delle arti della trasposizione, e di ogni premeditazione.
Che è poi il concetto che sta alla base della pratica di staccare i manifesti lacerati dai muri delle città. Si ricorda la prima volta in assoluto in cui lo avete fatto?
Certamente: è stato a Parigi, nel febbraio del 1949. Si trattava del manifesto di uno spettacolo, in cui comparivano solo alcuni frammenti tipografici, che danno il titolo a quella prima opera: Ach Alma Manetro. Ci colpirono moltissimo le lacerazioni della superficie del manifesto, che sembravano quasi delle ferite cromatiche. All’epoca, ciò che amavo di più era il collage cubista, e i caratteri tipografici ne rappresentavano un elemento che continuava a conservare una grande attualità; dunque, questo primo manifesto rubato dalla strada aveva qualcosa di post-cubista.
E quello fu un episodio isolato, che solo in seguito rielaboraste come pratica artistica vera e propria, o fu da subito il punto di partenza di una ricerca poi proseguita per decenni?
Fu un punto di partenza: esattamente come Mallarmé componeva le sue poesie utilizzando il colpo di dado e attingendo le parole dai manifesti appesi per le vie di Parigi, da quel momento noi cominciammo a raccogliere ciò che la strada ci offriva. Il manifesto è sempre stato molto importante, sia per la poesia che per l’arte figurativa della nostra epoca. Io capii subito che attraverso di esso potevo scrivere un nuovo capitolo della storia dell’arte, che documentasse il cambiamento delle parole e anche dei colori.
E così è stato: lei, infatti, è uno dei fondatori del Nouveau Réalisme, un movimento chiave dell’arte contemporanea. A questo proposito, quando avvenne il suo primo incontro con Pierre Restany, che del movimento fu il teorizzatore?
Il primissimo incontro avvenne nel 1954. Pierre era una persona di grande cultura, che tra l’altro conosceva bene l’Italia e l’arte italiana (aveva seguito i corsi di Giulio Carlo Argan) e parlava correntemente la vostra lingua. Lo incontrammo – si occupava allora degli astrattisti francesi, come Fautrier e Dubuffet – tramite Yves Klein, la cui madre era una pittrice astratta, nonché l’acquirente del primo Kandinskij. Noi conoscevamo Klein perché era amico di Tinguely, il quale a sua volta era amico di Dufrêne: l’ambiente artistico parigino a quel tempo era piuttosto ristretto, c’erano pochissime gallerie e dunque ci si conosceva un po’ tutti.
Fondamentale fu però la Biennale de jeunes del 1959, dove esponevano autori molto tradizionali, classici. Qui Heins, Klein, Tinguely ed io facemmo ovviamente scalpore con i nostri manifesti strappati e le nostre ricerche così “anomale”. Fu in questa occasione che Restany, che era allora un giovane critico di ventinove anni, comprese di trovarsi di fronte a qualcosa che aveva un avvenire. Intravide nelle nostre ricerche, sebbene così diverse, un comune denominatore e, grazie ai suoi contatti con la galleria Apollinaire, organizzò la prima mostra del gruppo, che fu allestita a Milano nell’aprile del 1960.
E in quell’occasione firmaste il primo manifesto del Nouveau Réalisme.
Il gruppo si costituì concretamente il 27 ottobre 1960, a casa di Yves Klein. C’eravamo io, Heins, Dufrêne, Tinguely, che aveva portato Spoerri, e naturalmente Klein, che aveva invitato Martial Raysse. Negli anni successivi si unirono Rotella, César, Deschamps, Christo e Niki de Saint-Phalle.
Ma avevate la consapevolezza che si trattava di un momento storico?
Personalmente sapevo che non si trattava di un gesto “pittorico”, ma che attraverso i miei manifesti strappati avrei potuto costruire un’opera completa. Le parole cambiano secondo le necessità del momento, secondo le leggi del commercio, della politica e così anche i colori mutano nel tempo… Per esempio, negli anni Cinquanta il blu che si vedeva nella metropolitana parigina era un blu-grigio, solo in un secondo momento sono arrivati i blu elettrici. Inoltre, l’uso della fotografia era meno frequente, ed i tempi tipografici molto più dilatati rispetto ad oggi, quando un manifesto si deve realizzare in dieci minuti.
Quali erano – sul piano umano – i rapporti fra voi, artisti del gruppo?
Ogni artista, chiaramente, fa i conti con il proprio ego. Posso dire che eravamo una sorta di grande famiglia, e i rapporti fra noi erano gli stessi che ci sono in tutte le famiglie: accordi, ma pure litigi, gelosie, invidie… Le cose, al nostro interno, non erano sempre facili: Dufrêne, per esempio, all’inizio ci considerava dei pazzi, e non cambiò idea sino a quando non vide il primo manifesto strappato appeso alle pareti di una galleria. Solo a quel punto si convertì anche lui alla pratica, e nacquero i suoi lavori sul retro dei manifesti, in cui le impronte del muro si sovrapponevano al rovescio dei colori.
La sua opera, Villeglé, si distingue da quella degli altri affichiste per la sistematicità…
Ho capito presto che attraverso i manifesti strappati riuscivo a cogliere quella che era la realtà urbana e che potevo documentarne i cambiamenti utilizzando i décollage secondo ripartizioni estetiche o di soggetto, così da creare un “catalogo tematico” con cui ripercorrere la storia della tecnica tipografica e della trasformazione dei colori.
La sua esperienza come affichiste si chiude definitivamente nel 2003. In che modo?
Nel 2003 mi trovavo a Buenos Aires. Negli ultimi anni era diventato difficile rintracciare manifesti lacerati in città come Parigi, troppo pulite e ordinate. Qui, invece, c’era molto materiale: percorsi chilometri e chilometri nei sobborghi, e in qualche angolo rinvenni dei vecchi manifesti realizzati prima della crisi economica che stava soffocando l’Argentina. Erano ricchi, pieni di lettere, mentre quelli più recenti, stampati su carta di scarsa qualità, somigliavano alle affiche che avevo staccato agli esordi, erano cioè fatti alla maniera antica, usando i caratteri di legno: è stato come se un ciclo si chiudesse.
Ad un certo punto, partendo da una posizione di semplice “osservatore attivo” della realtà per mezzo dei manifesti lacerati, lei ha iniziato un nuovo percorso estetico dando vita ad un peculiare vocabolario socio-politico, che ora utilizza come strumento espressivo in quelle che sono vere e proprie opere pittoriche.
Nel 1969 vidi nella metropolitana di Parigi una scritta di propaganda contro Nixon realizzata attraverso un grafismo molto particolare, che ricorreva a simboli politici come le tre frecce dell’ex Partito socialista, la croce gaulliana, la svastica nazista, eccetera. La forza simbolica di quegli ideogrammi mi colpì al punto che cominciai ad elaborare un vero e proprio alfabeto. Dieci anni dopo l’ho utilizzato per la prima volta per un’opera pittorica, attraverso cui offrire la mia visione della realtà.
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"Fondamentale - dice Villeglé a Stile Arte - fu la Biennale de jeunes del 1959, dove esponevano autori molto tradizionali, classici. Qui Heins, Klein, Tinguely ed io facemmo ovviamente scalpore con i nostri manifesti strappati e le nostre ricerche così “anomale”. Fu in questa occasione che Restany, che era allora un giovane critico di ventinove anni, comprese di trovarsi di fronte a qualcosa che aveva un avvenire. Intravide nelle nostre ricerche, sebbene così diverse, un comune denominatore"