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di Maurizio Bernardelli Curuz
Caravaggio ha la necessità di arrivare alla composizione e alla stesura del quadro attraverso la massima compressione espressiva. Egli ritualizza l’accumulo di materiale iconico, attraverso una serie di gesti pittorici che compie sia sull’imprimitura – la preparazione profonda della tela o della tavola – che sui quattro lati dell’opera. Le imprimiture e gli strati più profondi del dipinto pullulano letteralmente di figure, molto spesso generate da reticoli incisi, da forme floreali – rosa o margherita – che hanno la funzione di moltiplicare il sommovimento della materia finale e di creare, per il pittore che giace al centro del luogo pittorico, in un processo di immaginazione sciamanica, un ambiente massimamente creativo. Come fosse al cospetto di una pietra da incidere, Caravaggio fa uso di uno stiletto o di un chiodo: incide immagini – spesso di tenore grottesco – grafemi, rendendo la materia fratta e intredendo di sé ogni spazio a disposizione. Dipinge piccole figure e rifinisce le stesse con l’uso di un pennello sottile. Giunge poi ad esiti di massimo realismo, comprimendo i meccanismi artificiosi del Manierismo, attraverso una serie di elementi che gli permettono di calarsi in modo totalizzante in un reale pozzetto del Senso. Il pozzetto è oscuro e lui lo riempie di materia, sulle pareti, nei quattro lati. Questa materia iconica abnorme – per quantità e qualità – e inquieta – i dipinti di Caravaggio sono ricchissimi di anamorfosi – ha il potere di agire sia sull’autore stesso – che si cala in modo drammatico, grottesco e totalizzante nel segmento della realtà rappresentata – che, in modo subliminale, sullo spettatore.
A livello di gruppo di lavoro abbiamo già evidenziato, nel ciclo Contarelli, quanto nella Natività palermitana o nella Flagellazione, la presenza di figure reversibili e anamorfosi, sia a livello di strati superficiali che nelle campiture profonde. Ora richiamiamo l’attenzione del lettore sulle figure d’eco semantica e gli elementi subliminali – da noi evidenziati – presenti in Giuditta e Oloferne. (1600-1602 circa, 145×195 cm), opera conservata alle Gallerie nazionali d’arte antica, nel Palazzo Barberini, a Roma.
La vicenda narrata. Il libro di Giuditta – contenuto nella Bibbia – narra che la donna stessa liberò la città di Betulia assediata dagli Assiri del re Nabucodonosor. Giuditta era la ricca e giovane vedova di Manasse, possidente ebreo, che era morto, prima dell’invasione nemica, nei campi, a causa di un’insolazione. La vedova, bellissima, aveva mantenuto il legame profondo con il marito, mortificando la propria bellezza e restandogli fedele. E fu la sua bellezza fulgida a diventare un’arma mortale, quando i nemici giunsero in quella città. Per liberare il luogo dall’assedio, la giovane donna, si tolse gli abiti vedovili, si vestì in modo seducente, si profumò, mise i gioielli e raggiunse la tenda di Oloferne, il quale la trattenne con sé al banchetto, evidentemente con l’intenzione di giacere, poi, con lei; vistolo ubriaco, Giuditta gli tagliò la testa con la sua stessa spada e poi ritornò nella città, con la propria serva che recava con sé il macabro cimelio. Gli Assiri, trovato morto il loro condottiero, furono presi dal panico e facilmente messi in fuga dai Giudei.
L’individuazione di nuovi materiali iconici, portati alla luce dal nostro gruppo di ricerca, consente di affermare che Caravaggio concepì la scena come atto finale dell’uccisione di un toro, al termine di un rituale di morte, paragonabile a una tauromachia.
Il toro è il possente Oloferne che, a causa del desiderio sessuale imperioso e della violenza che caratterizza i capi degli eserciti invasori, finisce per essere preda della sua stessa preda, Giuditta, che qui è concepita da Caravaggio come un matador, che finisce la bestia con la spada, recidendole la testa. Agli occhi di Caravaggio, Giuditta è la virtù eroica femminile, antipode di Pasifae, colei che in preda a un desiderio sessuale abominevole, fece costruire la sagoma di una vacca per essere posseduta carnalmente dal Minotauro. Elementi taurini legati al minotauro e all’ara in cui viene sacrificato il toro, appaiono frequentemente nelle preparazioni del fondo dei dipinti di Caravaggio – ben rilevabili nelle radiografie – e forse costituiscono uno dei numerosi elementi di autografia che Caravaggio inserisce nella texture delle proprie opere, forse come stemma parlato del cognome della madre, Aratori (Ara Tauris).
Nel quadro del Caravaggio dedicato all’eroina ebrea, l’elemento taurino in Oloferne – simbolo di forza e di potenza sessuale primitiva – si presenta, ribaltato, nel drappo del giaciglio. Mano, stoffa e sangue dipinti da Caravaggio formano l’immagine di un animale – che si presenta come fusione di un toro, di un lupo e di una capra – colpito mortalmente al collo.
Tutta la scena si permea della forma di un urlo, suscitato da un ferimento mortale improvvisa, imprevisto e stupefacente. Il pittore accerchia il tema, lo rende dirompente, lo stipa di fughe e di motivi iconici che si ripetono e ripercuotono di sonorità drammatica l’intera superficie della tela, rilevandosi evidenti, solo in parte, in un immenso meccanismo alimentato da un affollamento di immagini subliminali.
La serva – che è presente, nella scena caravaggesca, mentre nel libro biblico si narra che fosse rimasta all’esterno della tenda – è un assistente alla tauromachia. Brandisce il telo come una cappa e non soltanto per accogliere la testa del toro. Le due mani stringono vigorosamente la stoffa così da formare due lembi simili a orecchi d’animali o a corna, secondo ciò che il pittore stesso – molto presumibilmente – già prevede in un disegno di toro in forma di panneggio, nel Fondo Peterzano – disegno I36130076 – e come egli prevede pure a livello della preparazione pittorica di Giuditta e Oloferne, configurazione che emerge grazie al referto radiografico – qui sotto evidenziato
Il pittore, pertanto, assimila questa figura a quella di un assistente alla macellazione chiamato – nel caso l’uccisione dell’animale si rivelasse complessa – a gettare uno straccio sul muso dell’animale da macellare, per disorientarlo e favorire il colpo mortale. Ma la vecchia serva, che Caravaggio trae iconograficamente da Leonardo – cfr immagine qui sotto –
è anche un mastino, un vecchio, fedele e severo cane da guardia, al quale il defunto Manasse ha affidato la sorveglianza attiva dell’astinenza sessuale della propria moglie. Mostruoso e infernale è il profilo della vecchia serva, cane fedele, custode della pudicizia della padrona. Tanto simile a un vecchio cane devoto alla padrona o a un mostro vendicativo di una gargouille, come ben possiamo vedere, nell’immagine.