Stilettate di Zana. Con Giotto. Perché trasformiamo (sempre) la Palma della gioia nella Palma del martirio

L’Ingresso a Gerusalemme è un affresco (200×185 cm) di Giotto, databile al 1303-1305 circa e facente parte del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova.
STILETTATE
di Tonino Zana
Le Palme, tutte quelle Palme, furono prese ai piedi del deserto e i fanciulli degli ebrei, i nostri fanciulli, cantarono a squarciagola e non immaginavano una Crocifissione da lì a cinque giorni. Dev’essere un numero imperfetto, cinque, proprio per la distanza tra il canto dell’innocenza e la morte sotto l’urlo dei chiodi. Certamente, anche i chiodi infissi nelle carne del Signore gridarono una loro colpa e furono scartati dalla lista delle reliquie.
Le Palme, oggi, sono state trasportate in Ucraina, mille per ogni bimbo a Mariupol, mille per ogni donna assassinata e stuprata, mille per ogni anziano, mille per ogni soldato con la pietà di curare il prigioniero ferito.
Festa bella, la festa delle Palme e però molto impegnativa per il contraccolpo, subito dopo, di una Crocifissione nella metafora più esatta della vita. Ci insegna di vivere la festa per quella che è e di non considerarla, subito, una festa su cui, presto, grandinerà. Le Palme, in fondo, si rapportano al loro contrario, alla metafora di Giacomo Leopardi nel Sabato del Villaggio, “Godi fanciullo mio, altro dirti non vo…”.
Ci si dice di godere o almeno rasserenarsi per il tempo che si può e di non tendere a una sofferenza a tutti i costi, la quale, verrà, certo, non nella dimensione di una ogni cinque giorni. Del resto, la Pasqua accade una volta all’anno, una volta all’anno le Palme e una volta all’anno il Venerdi Santo della più Santa e affliggente delle Crocifissioni umane.

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Maurizio Bernardelli Curuz
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