Nel Macellum di Pompei, che affaccia sul foro di Pompei, sono state allestite e collocate, in questi giorni, tre teche con i calchi delle vittime dell’eruzione del Vesuvio. Cosa sono esattamente questi corpi chiari, di gesso? Cosa sta al centro di essi?
Ce lo spiegano gli archeologi del Parco archeologico di Pompei.
“Nel corso degli scavi di Pompei sono stati rinvenuti i resti di oltre mille vittime dell’eruzione del 79 d.C. Durante la prima fase eruttiva gli abitanti che non si erano allontanati in tempo dalla città rimasero intrappolati negli ambienti invasi da pomici e lapilli o furono investiti dai crolli provocati dal materiale eruttivo depositatosi fino a un’altezza di circa tre metri; di queste vittime si sono rinvenuti soltanto gli scheletri. Successivamente un flusso piroclastico, ad alta temperatura, investì Pompei a grande velocità, riempiendo gli spazi non ancora invasi dai materiali vulcanici e provocando la morte istantanea per shock termico di chi era ancora in città. I corpi di queste vittime rimasero nella posizione in cui erano stati investiti dal flusso piroclastico, e il materiale cineritico solidificatosi ne ha conservato l’impronta dopo la decomposizione. Poco più di un centinaio di calchi sono realizzati a partire dal 1863, grazie al metodo perfezionato da Giuseppe Fiorelli.”
“I calchi delle vittime, esposti in vetrine di metallo e vetro, sono molto ammirati già nel primo “Museo Pompeiano”, allestito da Fiorelli nel 1873-1874. I numerosi calchi realizzati nel corso del Novecento sono invece generalmente lasciati a vista sul luogo del rinvenimento, in vetrine o protetti da tettoie”.
“Nel 1984 – spiegano gli esperti del Parco archeologico di Pompei – fu utilizzata invece una diversa tecnica per la riproduzione dei calchi : fu realizzato infatti un calco in resina eseguito su una delle vittime venute alla luce in un ambiente della Villa di Lucius Crassius Tertius di Oplontis. Quest’ultimo sistema sperimentato integra il metodo del calco in gesso ideato da Fiorelli con quello della fusione a cera della statuaria in bronzo, permettendo di realizzare un calco trasparente che rende visibile lo scheletro, consentendo l’individuazione e il recupero di gioielli e oggetti che le vittime portavano con sé al momento della fuga.
Le fasi di realizzazione di un calco
(disegni di U. Cesino)
“Il metodo ideato da Giuseppe Fiorelli ed utilizzato tuttora per la realizzazione di calchi è molto semplice. La cenere, indurita, costituisce quello che viene comunemente chiamato “tuono”, uno strato molto resistente. – affermano gli studiosi del Parco archeologico di Pompei – E’ in questa cenere indurita che spesso gli archeologi rinvengono dei vuoti, causati dalla decomposizione di sostanze organiche: può trattarsi di elementi in legno come mobili, infissi, oggetti ma anche di corpi degli individui.
Nel vuoto viene quindi versata una miscela di gesso ed acqua fino a riempirlo totalmente. Lasciato asciugare il gesso, si può procedere nello scavo e si mette in luce ciò che aveva determinato il vuoto: la cenere indurita ha conservato infatti, come uno stampo, il volume, la forma e la posizione dell’oggetto o del corpo che era stato sepolto”.
“Questa impronta di gesso solidificato è chiamato calco. Può includere alcune parti che non si sono decomposte, per esempio le ossa dell’individuo o gli oggetti in metallo che indossava o recava con sè; può presentare sulla superficie l’impronta della trama dei tessuti che lo ricoprivano e che si sono anch’essi decomposti o di cui restano talvolta solo minime tracce.
In questi particolari casi dunque, a differenza di tutti gli altri siti archeologici, non si conservano solo gli scheletri degli individui, ma addirittura la loro forma reale, il loro aspetto esterno, il loro abbigliamento, le loro fattezze, i loro gesti, anche se quelli tragici della loro agonia”.