[E]cco la Salomè di Alessandro Bonvicino detto il Moretto. Alla Pinacoteca Tosio Martinengo, nell’ambito di un appassionante percorso che parte da Raffaello (L’angelo e il Cristo benedicente) per giungere, dopo uno strepitoso slargo cinquecentesco, a un viaggio nel Seicento fino ad entrare nel settecentesco mondo del Pitocchetto, troviamo quella minuscola, misteriosissima opera dominata dalla fragranza delle carni e dalla morbidezza degli abiti principeschi.
Numerose sono state le ipotesi avanzate sull’identità e sulla valenza simbolica della bella effigiata, ma una strada che possa far convergere i diversi filoni ipotetici nell’alveo di una risposta fortemente plausibile, non è ancora stata individuata. Soprattutto si avverte la necessità, di fronte al dipinto, di conoscerne la finalità semantica. Un soggetto devozionale? Un’opera che, partendo da una suggestione biblica, si apre invece a significati che, confrontandosi con il mondo della religione, giungono a un’esplorazione laica dei rischi della seduzione?
Osserviamo il quadro – che rappresenta uno dei non frequenti soggetti non eminentemente ascrivibili alla pittura sacra, in Moretto – affinché nessuna parte sia sottovalutata. Il primo percorso di senso si dipana dalla parte inferiore destra.
Il Moretto, infatti, non presentando gli elementi attributivi di Salomè in grado di comunicarne simbolicamente l’identità
– costituiti dal piatto che reca la testa del Battista -, inserisce un’epigrafe vergata su marmo: Quae Sacrum Ioanis caput saltando obtinuit.
La scritta appare un elemento incontrovertibile nell’ambito dell’orientamento dell’osservatore rispetto all’identità dell’effigiata. E’ da quel punto che dobbiamo partire. Siamo allora certi, in virtù di quello scritto, di essere di fronte a colei “che danzando ottenne il sacro capo di San Giovanni Battista”.
L’episodio evangelico è ben noto, ma lo ripercorriamo brevemente per entrare meglio nella storia. Giovanni Battista, il cugino di Gesù, aveva pubblicamente condannato la condotta di Erode Antipa, che conviveva con la cognata Erodiade; il re, per ridurlo al silenzio, lo aveva fatto imprigionare. Narra Matteo (14, 3-13): “Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione per causa di Erodiade, moglie di Filippo suo fratello. Giovanni infatti gli diceva: ‘Non ti è lecito tenerla!’.
Benché Erode volesse farlo morire, temeva il popolo perché lo considerava un profeta. Venuto il compleanno di Erode, la figlia di Erodiade danzò in pubblico e piacque tanto a Erode che egli le promise con giuramento di darle tutto quello che avesse domandato. Ed essa, istigata dalla madre, disse: ‘Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista’. Il re ne fu contristato, ma a causa del giuramento e dei commensali ordinò che le fosse data e mandò a decapitare Giovanni nel carcere. La sua testa venne portata su un vassoio e fu data alla fanciulla, ed ella la portò a sua madre. I suoi discepoli andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne Gesù”.
Ora l’osservatore deve chiedersi il motivo per il quale Moretto rifiuti di rappresentare il momento storico della consegna del macabro premio alla ragazza, né rievochi il piatto sul quale il capo di Giovanni fu deposto. E un’altra domanda sorge in chi indaga sul possibile significato della tavoletta: perchè l’artista sceglie, per la rappresentazione, una prospettiva temporale così distante dai fatti salienti? L’episodio evangelico è ormai superato, nel dipinto di Moretto, e comunque rievocato in un segmento temporale successivo. Giovanni è ormai stato decapitato. Solo l’epigrafe ha la funzione semantica di orientare lo spettatore sulla funzione drammatica esercitata dalla donna che posa nel quadro.
Il verbo obtinere appare nell’epigrafe declinato al passato remoto, nella terza persona: obtinuit (ottenne). Ciò conferma che l’azione violenta della decapitazione, come ricorda la pietra che ha la valenza di un elemento solennemente storicizzante, è avvenuta molto prima del momento della rappresentazione.
A questo punto si aprono due possibilità. O il Moretto intendeva alludere, per ricordare Giovanni, a un episodio ormai lontano nel tempo con il fine di evitare una raffigurazione truculenta dalla quale, come dimostra l’ampio catalogo del pittore, si tenne sempre lontano – ma perchè, ci chiediamo, dipingere Salomè senza che il Battista entri direttamente in campo come oggetto di pietà o di devozione? -, oppure l’opera nacque, come ci pare più plausibile, con altre finalità, nella forma di monumentum, cioè di ammonimento legato, in questo caso, ai rischi del rapimento sensuale.
La bellezza dell’effigiata, lo scettro – che potrebbe indicare, al contempo, la stirpe regale e il ruolo simbolico di sovrana del cuore dell’amato -, il lauro del fondale – che potrebbe rinviare alla poesia e comunque all’arte, intesa nella sua accezione più sensuale, aperta al rischio di rapimento -, il volto dolce e remissivo risultano fortemente contrastanti con la durezza della pietra a cui la donna è appoggiata e, soprattutto, con la frase didascalica che appare incisa. Lo spettatore è pertanto indotto a penetrare nel dipinto per risolverne il quesito posto dall’ambiguità iniziale dei termini.
Torniamo al contrasto: donna bellissima, dolce, all’apparenza virtuosa contro un’epigrafe che si addice a un’assassina. Una persona che, per bellezza e mondane virtù, si rivela in grado di conquistare il cuore di ogni uomo. Ma quella scritta, lì sotto, sotto una manica vellutata, sotto una pelliccia principesca, fornisce al quadro una terribile vibrazione, come se il Moretto e il suo committente volessero ricordare i rischi di quella che oggi definiremmo un’attrazione fatale: nascosto dal velo superficiale dell’apparenza più nobile e disarmata, celato da un volto angelico, il male che sta al di là delle apparenze – non ci sfugga lo slittamento semantico dell’allegoria – fa perdere la testa all’innamorato, attraverso una seduzione diabolica.
Sempre più emerge, dalla lettura dei due piani di contrasto – la leggiadra immagine femminile, la durezza dell’iscrizione lapidea – la finalità del dipinto, che si profila come un avvertimento sui rischi della seduzione. Ciò che il maschio avveduto chiede ad Amore è di non perdere la testa per il sentimento, specie nel caso in cui una sorte improvvida, celata sotto i lineamenti angelici della donna-demone, ricca di qualità mondane, vestita da Regina, profili il proprio inganno estremo.
Salomè significa seduttrice; seduttrice che fa perdere la testa. L’uomo sia quindi avvertito.
Secondo la tradizione, il quadro rappresenterebbe – nel raccordo con la mitica Salomè – Tullia d’Aragona, una straordinaria, raffinatissima cortigiana del Cinquecento. Ma ciò che importa, ora, non è tanto l’identità storica della donna effigiata – che potrebbe persino avere, plausibilmente, il volto dell’amante di colui che ordinò il dipinto -, quanto la sua funzione ammonitrice: l’uomo deve guardarsi dalle insidie dell’infatuazione per non essere trascinato nei gorghi di una sensualità che può addirittura condurre alla morte.
Del resto, nell’epoca in cui fu realizzata l’opera del Moretto, in una città confinante con Brescia, un altro amante focoso, Federico Gonzaga, assegnava all’emblema della salamandra il ruolo di invitare perennemente alla necessità di non soggiacere al fuoco dell’amore. Quod huic deest me torquet, avverte il motto federiciano. Ciò che manca alla salamandra – un animale dal sangue freddo, capace, secondo le cognizioni dell’epoca, di vivere nel fuoco senza bruciare – tormenta me. Cerchiamo di non perderne memoria.
(maurizio bernardelli curuz)