di Enrico Mirani
La Kauffman ritrasse teste coronate, fu ammirata da Canova e sposò l’artista Zucchi perché il matrimonio era necessario. E quando Goethe apparve nella sua vita fu un’irreparabile tempesta di delizia e tormento che lentamente la portò alla tomba, onorata come una regina della pittura.
Troppo devota all’arte, non provò mai quell’amore pieno e vissuto che agognò tutta la vita. Troppo impegnata a fissare il bello sulla tela, non sperimentò la parte complementare della bellezza: l’amore corrisposto di un’anima gemella. Troppo brava e famosa da essere considerata un’icona irraggiungibile, non ebbe un uomo che la rese felice. La biografia di Angelica Kauffman (1741-1807) la più grande pittrice del Settecento à affascinante. Consegna alla storia dell’arte una donna colta, ricca, indipendente, rispettata, temuta, invidiata e ammirata, assolutamente straordinaria per ogni epoca: figuriamoci per il XVIII secolo. Eppure una donna infelice nel profondo dell’anima, uccisa a sessantasei anni dai colori tossici usati sin da bambina, ma soprattutto dalla depressione, dalla solitudine, dall’apatia. Dal mal di vivere che segnò gli ultimi anni della sua esistenza. Inoltriamoci, allora, in questa biografia, grazie all’aiuto del bel libro di Leros Pittoni, La vita di Angelica Kauffman ala ricerca del bello e dell’amore, De Luca Editori d’Arte. Angelica nacque nel 1741 a Coira, nel Cantone svizzero dei Grigioni.
Un luogo irrilevante per il suo futuro: la pittrice – pur legata ai parenti – fu infatti una cittadina del mondo, soggiornando in varie città di diversi Paesi. Suo padre, Joseph, pittore modesto, era originario dell’Austria; la madre Cleofe, colta e sensibile, era dei Grigioni. L’influenza dei genitori fu determinante per la personalità di Angelica. Dal padre apprese i rudimenti della pittura, sviluppati da un talento naturale straordinario oltreché da una pratica assidua davanti al cavalletto. Joseph coltivava quella scolara modello in maniera perfino ossessionante. Dalla madre apprese, invece, il canto, la musica, le lingue e la letteratura. Fin da piccola, insomma, Angelica nutrì una speciale sensibilità artistica. Fu davvero precocissima: a undici anni – nel suo primo viaggio in Italia – dietro compenso dipinse il ritratto del Vescovo di Como, ammirato dalla bravura della bambina. Il nostro Paese – ricco di possibili commesse e di musei in cui studiare i maestri del passato – era un richiamo irresistibile.
Nel 1754 la famiglia Kauffman si trasferì a Milano. Angelica dipingeva ritratti, copiava le opere dei grandi, affinava mano, mente e anima. Un brutto colpo fu la morte della madre, nel 1757, ma Joseph e la figlia partirono per la Germania, al servizio di vescovi e nobili compiaciuti di farsi ritrarre dalla fanciulla, che nel frattempo si era fatta bella ed avvenente. A soli ventun anni Angelica aveva già lavorato a Parma, Bologna, Firenze, Roma, entrando a far parte di varie accademie. Non ancora famosa, ma già richiestissima per i ritratti e le copie dei maestri pittori. Figlia e padre viaggiavano incessantemente alla ricerca di stimoli, commesse, ispirazione. Nel 1763 vissero a Napoli, l’anno dopo ancora a Roma, Bologna, Venezia. Fino al trasferimento più importante, quello che consacrò Angelica nella fama, nell’arte, nella stabilità economica. Nel giugno del 1766, sempre seguita dal padre, si recò a Londra. Godendo delle buone protezioni, fu introdotta in ambienti che contavano, ricevendo incarichi da sovrani, principi, aristocratici. Ritratti, quadri storici e mitologici. Un’arte di corte, elegante, celebrativa, esteriore, che sapeva cogliere momenti ed espressioni naturali.
E l’amore? A Londra Angelica conobbe finalmente la fiamma della passione. Si innamorò d’un giovane bello e brillante, il conte svedese Federico de Horn. Questi, pur vantando grandi mezzi economici in patria, si diceva momentaneamente in difficoltà, essendo in disgrazia per motivi politici presso il suo sovrano. Anzi, le autorità inglesi stavano per consegnarlo a quelle svedesi. A meno che…A meno che Angelica l’avesse sposato, ottenendo così la protezione degli amici potenti della pittrice. Il 20 novembre 1767, in gran segreto, si unirono davanti all’altare. Ben presto il sedicente conte si rivelò quello che era: un truffatore matricolato (peraltro già coniugato) in cerca di denaro. Per acconsentire alla separazione, tre mesi dopo il matrimonio, prese una lauta liquidazione. Un’esperienza devastante per la pittrice, che poté risollevarsi soltanto grazie alla sua arte. Andò a lavorare in Irlanda e quindi tornò a Londra.
Ma un uomo accanto le era indispensabile, pensava il padre Joseph, il quale insistette e combinò il secondo matrimonio della figlia: quello con il pittore veneto Antonio Zucchi, di quindici anni più vecchio di Angelica. Era il 14 luglio 1781. La loro fu un’unione serena, senza amore ma rispettosa, fra persone che si stimavano. Zucchi, in particolare, fu fino alla morte ammiratore e amministratore dell’arte muliebre. Nel 1781 ci furono anche altri cambiamenti: la famiglia lasciò Londra per Verona e Venezia, e nell’inverno morì Joseph. Angelica e Antonio si trasferirono a Roma, dove in via Sistina, a Trinità dei Monti, la pittrice aprì il suo atelier. Sovrani e nobili facevano a gara per farsi ritrarre da lei. La sua casa – dove alle pareti spiccavano Rembrandt, Van Dyck, Tiziano, Veronese, Leonardo – era meta di teste coronate e artisti come Antonio Canova, che l’amò, ricambiato con una semplice amicizia, sia pure affettuosa. Un’altra grande passione stava per nascere in Angelica. Nell’ottobre del 1786 giunse a Roma Johann Wolfgang Goethe, già famoso. Incontrò quasi subito Angelica, rimanendone incantato: per l’arte, la sensibilità, la cultura, il fascino. Senza però andare oltre, preferendo amori e passioni più frivoli. La pittrice fu invece folgorata e si innamorò di lui. Lui aveva trentasette anni, lei quarantacinque. Si frequentarono assiduamente, con un sentimento forte, sia pure squilibrato, che comunque riguardò le sole anime. Quando Goethe lasciò Roma, Angelica cadde in uno stato pietoso: “ Il suo commiato – gli fece sapere – mi ha trafitto l’anima. Il giorno della sua partenza è stato tra i giorni più tristi della mia vita”. Lei gli restò legata, gli scrisse ancora, sperò in una visita: ma Goethe, troppo preso da se stesso, la ignorò. Un’altra cocente delusione, un’altra illusione sfiorita. Alla protagonista del panorama artistico veniva negata la felicità di un amore intenso e consumato. Come se soltanto alla tela potesse consegnare la forza dei sentimenti che agitavano il suo spirito. Nel 1795, dopo la morte di Antonio Zucchi, precipitò in uno stato fisico psichico preoccupante.
Spossata, senza desideri e motivazioni. ”L’arte: a lei sei consacrata, vivi per essa”, invocavano gli amici. Anni di alti e di bassi, di opere straordinarie e di buio creativo, di fervore e di apatia. Infine, il 5 novembre 1807, la morte, per il mal di petto patito per anni, probabilmente effetto dei veleni della tavolozza respirati e toccati in sessant’anni di attività. Un male al corpo innestato sull’anima afflitta. Il funerale fu un evento. Al corteo partecipò una grande folla. Artisti, Letterati, nobili, popolo. Davanti a tutti Antonio Canova e i Direttori dell’Accademia di Francia e di San Luca. La più grande pittrice del Settecento, esempio creatrice d bellezza, se n’era andata senza conoscere appieno le gioie dell’amore.