L’Autoritratto come allegoria della Pittura – che, in fondo a questa pagina potremo ingrandire notevolmente, fino a vedere ogni singola pennellata – è un dipinto a olio su tela (98,6x 75,2 com) di realizzato nel 1638-39 da Artemisia Gentileschi. È conservato a Londra al Kensington Palace.
Il quadro – firmato con la sigla A.G.F. cioè Artemisia Gentileschi fecit – era nella collezione di re Carlo I.
Si tratta di una splendida Allegoria della Pittura, eseguita in accordo con i canoni iconografici descritti nella Iconologia di Cesare Ripa (1611): la Pittura è personificata da una donna che porta al collo una lunga catena d’oro con un medaglione in forma di maschera, ha i capelli neri un po’ scarmigliati, indossa una veste di colore cangiante, tiene con una mano il pennello e con l’altra la tavolozza. Ma se gli elementi simbolici rispettano un canone, l’impaginazione è incisiva e a tratti violenta nell’occupazione degli spazi. Artemisia, in veste di pittura, dilaga e cinge a tenaglia la tela che è “cruda” e appare nella verità oggettiva del materiale.
Questa posa dinamica, che pare scattare da una reazione di ribellione, è frutto del temperamento dell’artista che, dopo la violenza sessuale subita da parte di un collega del padre pittore , l’inganno protratto di costui che le aveva promesso un matrimonio riparatore, le deposizioni al processo per violenza, il pubblico dileggio, aveva assunto un’autonomia e un orgoglio che la portarono spesso a difendere rabbiosamente i propri spazi e a proclamare la propria presenza come autrice e probabilmente come modella di se stessa. L’autoritratto come Allegoria della pittura fu siglato per evitare che altri ne assumessero la paternità, per ribadire la specificità dell’autrice e probabilmente anche per una forma pubblicitaria. Volto e sigla avrebbero riportato alla sua identità. Com’è noto, a quell’epoca i quadri erano raramente siglati o firmati.
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